Sam Raimi torna a dirigere un cine-comic.
L’ultima volta era stata col tragico “Spider-Man 3”, un film che, per certi versi, ha segnato e ha insegnato alle major che affidare un blockbuster a un autore può essere sì, un valore aggiunto, ma pure un bel pain in the ass, specie se l’obiettivo è quello di rincorrere il box office a cadenze prestabilite, ponendo la qualità artistica in secondo piano.
Una battaglia – quella tra major e autori – che negli anni si è rivelata sicuramente impari e feroce, tant’è che adesso leggere il nome di Raimi sul manifesto del nuovo Doctor Strange fa inevitabilmente notizia.
Fa notizia perché sappiamo benissimo, ormai, come funzionano certi meccanismi, quanto margine di libertà esiste in un contesto narrativo come quello dell’MCU e quanto sia sempre più difficoltoso muoversi all’interno di un’industria nella quale lo spazio per sperimentare e rischiare è praticamente pari allo zero. Insomma, la domanda tormentone era: “Ma quello che vedremo sarà un film di Raimi, oppure l’hanno chiamato per fare il fantoccio?”.
E la risposta, come spesso capita, si trova nel mezzo: perché se è vero che Raimi in “Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia” si vede e si sente forte e chiaro, è altrettanto vero che lo fa in una forma decisamente scolastica e sacrificata. Come se un pilota professionista di Formula 1, per intenderci, fosse costretto a guidare un’utilitaria: è evidente che la guiderebbe meglio di un qualsiasi altro pilota anonimo, ma dovrà comunque fare i conti con i limiti di quel veicolo. Un compromesso che, se accettato e digerito, permette a noi spettatori – e cinefili? – di accontentarci e divertirci ugualmente, visto che, fino a prova contraria, era un bel pezzo che un film Marvel non rintracciava un approccio visivo e una personalità come quelli che a tratti, qui, si riescono a percepire (ed era pure un bel pezzo che il regista de "La Casa" latitava dietro la macchina da presa).
Raimi porta sé stesso, il suo cinema (il suo stile) e l’horror (soft) all’interno di un universo che questi elementi non li aveva mai visti, pur dimostrando di assimilarli e di digerirli alla grande. Il problema, però, è che anche quest’universo, inevitabilmente, porta Raimi a dover fare i conti (ad abbassarsi, ahimè) con lui e con una sceneggiatura, in particolare, palesemente improvvisata e tirata su per i capelli: a partire da un incipit forzato, per arrivare a una parte centrale che sta ancora gridando vendetta. E ammesso e non concesso che, per capire totalmente cosa stia succedendo, io debba avere un abbonamento a Disney+ e aver visto obbligatoriamente tutte le puntate di “WandaVision”, scrivere il secondo capitolo di un personaggio come Strange aggrappandosi alla depressione e alla follia di un personaggio come Wanda – che di fatto diventa la protagonista incontrastata – è uno stratagemma quantomeno discutibile, se non addirittura disperato. Un patto che però lo spettatore è disposto ad accettare ben volentieri, soprattutto perché è grazie a quello che Raimi può cominciare a citare sé stesso e a far partire un revival malinconico (ma piacevole) della sua iconica filmografia da regista. Lo fa attraverso un esercizio di stile eseguito a intermittenza, sufficiente ingranare la marcia e a far prendere quota alla storia, una quota interrotta bruscamente, poi, dall’ennesimo viaggio nell’ennesimo multiverso – maledetto chiunque abbia deciso di tirarlo in ballo – che ci presenta degli Avengers passati a una sorta di livello successivo e ribattezzati Illuminati: e questo pur essendo – involontariamente, a quanto pare – dotati di una forza e di un intelletto ai limiti dell’imbarazzo e capaci in un sol colpo di ridicolizzare e compromettere l’intera credibilità della trama (la poca che c'era, almeno).
Un crollo totale e senza possibilità di appello, parzialmente recuperato da una parte finale nella quale Raimi sembra prendere maggior possesso della pellicola e ricevere quel minimo di carta bianca necessaria a smuovere la sua creatività: salvando capra e cavoli buttando la situazione in caciara e coprendo strascichi e magagne col sostegno dell’assurdo e dell’umorismo. Due carte che salvano la sua faccia, in primis, e migliorano (di parecchio) il giudizio su un lavoro che, messo in mani diverse, avrebbe probabilmente rasentato il pastrocchio.
Anziché il pop-corn-movie esilarante e squinternato a cui invece abbiamo assistito.
Anziché il pop-corn-movie esilarante e squinternato a cui invece abbiamo assistito.
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