Bullet Train - La Recensione

Bullet Train Poster Ita

Per quanto mi riguarda, esistono dei titoli che mi piace etichettare come film-one-shot: ovvero, tutti quei film che, quando li guardi per la prima volta sembrano divertentissimi, ma poi a una seconda visione – vuoi perché conosci già la storia, le battute e i colpi di scena – perdono abbastanza da risultare non più così entusiasmanti come te li ricordavi.
E, secondo me, “Bullet Train” rientra perfettamente in questa categoria.

Chiaramente sarà il tempo – e un’eventuale seconda visione – a darmi ragione o torto, ma per adesso, al suo one-shot, il film diretto da David Leitch – e sceneggiato da Zak Olkewicz, partendo dal romanzo di I Sette Killer Dello Shinkansen di Kōtarō Isaka – è una goduria assoluta, capace di intrattenere con (tanto) umorismo e (tanta) azione. La trama, è il solito pretesto per mettere un mucchio di assassini – o comunque un mucchio di gente poco raccomandabile – all’interno dello stesso contesto, senza possibilità di fuga e con la consapevolezza che “ne resterà vivo solo uno”. Il problema è che le coincidenze o la (s)fortuna, finiscono per alterare la scacchiera e portare dentro al treno ad alta velocità – che va da Tokyo a Kyoto – anche il killer in crisi mistica e sotto terapia di Brad Pitt (in forma a dir poco straordinaria), il quale con l’intento di recuperare una semplice valigetta si ritroverà a dover lottare per la vita propria e (forse) di qualcun altro.
Superato il drammatico prologo, quindi, i toni si tramutano all’istante in quelli della commedia. Leitch ci tiene subito a mettere le cose in chiaro, evidentemente: il suo è un film-cazzone e in quanto tale, non ha la minima intenzione di prendersi – e di esser preso – sul serio.

Bullet Train Brad Pitt

La maniera migliore di affrontare “Bullet Train”, allora, è quella di munirsi di una bella bibita, un grosso cesto di pop-corn e viversi il viaggio: un lusso non consentito, loro malgrado, a nessuno dei protagonisti. I conflitti che, sulle prime, esplodono casuali e stravaganti sono infatti frutto di un piano elaboratissimo, a cui avremo accesso a tempo debito e incastro dopo incastro. Nel frattempo, a sollevarci dai dubbi e da potenziali arrovellamenti, ci pensano le coreografie e gli epiloghi nonsense dei combattimenti a catena che il povero Pitt – in piena fase spirituale, ricordiamolo – e i suoi (non) compagni di viaggio intraprendono ognuno per uno scopo personale ben preciso: che non è detto faccia il paio, poi, con la vera realtà dei fatti. La carne al fuoco è parecchia, come le false piste e il fumo agli occhi. Ma il disegno di Leitch è molto più esiguo – e quindi gestibile – di ciò che vuol farci credere e l’entrata in scena di determinati “fenomeni”, più che complicare l’intreccio ha unicamente lo scopo di vivacizzarlo, comicizzarlo e allungarlo (troppo?).

E pure se, nel finale, il senso della misura sembra scappargli di mano, andando oltre il limite consentito – in particolare sulla leva catastrofi / distruzione – è innegabile che tale flessione non basti a far deragliare il convoglio.
E gran parte del merito va anche al personaggio – e all’interpretazione maiuscola – di Pitt che, al di la degli interrogativi sulla conservazione della pellicola, ricorderemo sicuramente a lungo e con simpatia.
Altro che one-shot.

Trailer:

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