Non è un caso, allora, se il suo Nazzareno rinunci al verbo.
Se i suoi miracoli non avvengano formulando frasi imperative, ma semplicemente urlando.
E parliamo di urla sofferte, di urla disperate, urla che lo stesso attore, ha dichiarato, essere figlie di una caratterizzazione non prevista, ma nata spontaneamente, quando gli aforismi di Lec – pensati in teoria – hanno iniziato ad uscire e a suonare finti.
Ed è qui, ovvero dal principio, che – sempre stando alle sue parole – l’opera (e il corpo) comincia a sfuggire al controllo del suo autore (e dell’attore). Ad abbandonarsi all'inconscio. A vivere di vita propria, insomma. Un imprevisto che manderebbe in crisi qualunque artista al mondo, ma che invece Antonio Rezza accoglie andando in un brodo di giuggiole: talmente è abituato ad adattarsi alla casualità degli spunti e a realizzare prodotti dal gusto sperimentale. Girato in circa 18 anni – dal 2004 al 2022 – “Il Cristo In Gola” parte, quindi, omaggiando “Il Vangelo Secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, cambiando totalmente rotta (e pelle), una volta che il suo protagonista entra in scena e si presenta allo spettatore. Da quel momento in poi l’anima di Rezza – quella del performer, del dissacratore – prende il sopravvento, trascinandoci alla corte di personaggi assurdi, che vanno a riscrivere e a reinterpretare ruoli che, fino a un attimo prima, pensavamo appartenere a un canovaccio di ferro, intoccabile. Così se il Ponzio Pilato di Federico Carra lo pungola e lo mette alla prova per guarire la sua cefalea e potersi concedere finalmente a ragionamenti filosofici devastanti, il Diavolo della compianta e imprevedibile Maria Bretagna gli consiglia di iscriversi alla SIAE e di emigrare all’estero, perché: “Tu qui sei sprecato!”.
Ribaltamento al quale dovrebbero astenersi i fondamentalisti religiosi, probabilmente.
Specie per come - pur seguendo la falsa riga dell’opera originale - Rezza porti avanti il suo ragionamento – lapidario – su potere, religione (cristianesimo) e famiglia: arrivando a un finale che potrebbe andare ad infastidire la sensibilità di molti.
Eppure, affrontare una storia come questa dal punto di vista laico, libero da ogni riverenza e da ogni ostinazione, resta comunque un’opportunità da cogliere e da esplorare (oltre che inedita). In fondo Rezza non fa altro che raccontare la sua esperienza personale, il suo rapporto viscerale con tali argomenti, rielaborando il Vangelo, ma senza manifestare alcun principio di arroganza, o istigazione alla polemica. Le sue intenzioni non risultano mai cattive, o provocatorie; non hanno nulla a che vedere con lo schernimento gratuito verso chi crede e chi professa la parola di Dio: sebbene alcune licenze poetiche tendano a scatenare – perlomeno nel mio caso – risate e stupori.
L'ideale, perciò, sarebbe riuscire ad avvicinarsi a “Il Cristo In Gola” a mente libera, senza pregiudizi.
Con l’unica consapevolezza, forse, legata a un minimo di conoscenza del suo autore e al concetto che, da anni, promuove di opera.
Perché la personalità di Rezza è risoluta e forte abbastanza da sovrastare persino – e per fortuna, se vogliamo – quella di Dio: a cui non resta che piegarsi alle sue volontà, accettando l'inedito ruolo del meno onnipotente in scena.
Con l’unica consapevolezza, forse, legata a un minimo di conoscenza del suo autore e al concetto che, da anni, promuove di opera.
Perché la personalità di Rezza è risoluta e forte abbastanza da sovrastare persino – e per fortuna, se vogliamo – quella di Dio: a cui non resta che piegarsi alle sue volontà, accettando l'inedito ruolo del meno onnipotente in scena.
Cosa che, al cinema, non può assolutamente suonare come blasfemia.
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