Dostoevskij - La Recensione

Dostoevskij Poster Serie

Poche ore prima di immergermi nella proiezione fiume di "Dostoevskij", parlavo con un amico che, incuriosito, ha cominciato a chiedermi delle informazioni sulla trama. Così io, per fargli avere un'idea vagamente chiara di cosa stessi per andare a vedere, ho paragonato la serie televisiva - o il film in due atti, è facoltativo - di Damiano e Fabio D'Innocenzo al "Seven" di David Fincher. "Anche qui c'è un serial killer che uccide le sue vittime in maniera efferata!", gli ho detto. "E un poliziotto che indaga per riuscire a stanarlo!". Una descrizione che il mio amico aveva apprezzato, stando alla sua reazione, che, per intenderci, era stata di quelle in cui ti rendi conto di averlo quasi convinto ad acquistare il prodotto. Ecco, ora però, dopo averlo visto davvero "Dostoevskij", sperimentato sulla mia pelle, assorbito, se incontrassi nuovamente quell'amico mi sentirei in dovere di aggiustare parecchio il tiro. Gli direi che il paragone con "Seven" effettivamente non regge, che qui ci troviamo di fronte a tutta un'altra cosa, perché si, è vero che c'è un serial killer da stanare e un poliziotto sulle sue tracce, ma limitarsi a descrivere la storia con queste parole, significherebbe andarla a svuotare completamente della sua anima: quella marcia, misteriosa e oscura che ti pietrifica e ti fa prigioniero, impedendoti di muovere un muscolo fino ai titoli di coda.

È impossibile, infatti, stavolta mettersi a fare schieramenti. Dividere bene e male, buoni e cattivi. Perché quello in cui "Dostoevskij" chiede allo spettatore di entrare è letteralmente un viaggio all'inferno, una discesa agli inferi per la quale non c'è redenzione, né possibilità di salvezza. "Quando pulisci cantine, non puoi pretendere di uscire senza sporco addosso!". Lo dice il funzionario di polizia di Federico Vanni (bravissimo) all'Enzo Vitello protagonista, di uno straziante Filippo Timi, durante una delle loro rare, tesissime, ma comunque sincere conversazioni. In quello che è un rapporto di amicizia, oltre che professionale, prossimo a esaurirsi, a dissolversi, perché Enzo sta diventando sempre più arrabbiato, chiuso, imperscrutabile, e se non fosse per Dostoevskij sarebbe morto già alla prima scena, alla prima inquadratura: quella in cui ce lo presentano imbottito di pasticche, mentre sta lasciando una lettera in cui spiega i (non) motivi del suo suicidio. Poi squilla il cellulare e questo nuovo assassino dal soprannome intrigante, guadagnato sul campo per via delle lettere che ama lasciare sul luogo del delitto, diventa la sua ossessione, il morbo che lo tiene in vita. Ma di sporcizia dentro di sé Enzo ce ne ha troppa, l'ha accumulata negli anni e non solo per colpa delle cantine che ha dovuto svuotare. A Enzo, a quanto pare, son toccate pure le soffitte, la sua, che è simile a quella dei film horror, quella in cui quando ci metti piede, il minimo che ti può capitare è sentire dei rumori molesti. E per evitare di fare danni, di macchiare vite innocenti con le sue mani luride, Enzo ha deciso di allontanarsi dalla sua famiglia, dalla figlia Ambra, soprattutto, la quale ha sopperito alla mancanza del padre crescendo piena di sensi di colpa, droghe e odio verso sé stessa.

Dostoevskij Filippo Timi

Scheletri nell'armadio (mostri) che i fratelli D'Innocenzo sono bravi a chiudere a chiave, ad occultare, pur evocandoli continuamente nei gesti, nelle parole, negli sguardi e nell'atmosfera grigia e consumata che non si concede mai (o quasi) nemmeno un raggio di sole. Un contesto che diventa rapidamente centro del racconto, sovrastando persino l'importanza di un'indagine che, volontariamente, passa in secondo piano, facendosi indiscreta e rinunciando a una spettacolarizzazione che per un film - o una serie - del genere in molti avrebbero dato per scontata. Le domande si fanno tante, allora, e le risposte ricevute scarseggiano, invece, perché bisogna avere pazienza, bisogna aspettare che si arrivi esattamente a metà narrazione per cominciare a ricevere solidi indizi, farsi due conti. Vedere in faccia il demonio - non l'assassino, è - e intuire verso che direzione, probabilmente, Enzo ha intenzione di andare, decidendo se è il caso o meno di seguirlo e di stargli accanto fino alla fine. Perché ad un certo punto quei fantasmi (quei mostri) evocati rompono i lucchetti, prendono forma, vengono alla luce, e il loro aspetto quando finalmente ci viene concesso di poterli osservare fa decisamente più paura di quanto avremmo mai immaginato. Perché infarciti di punti di non ritorno, di confessioni che uccidono e conseguenze che all'improvviso appaiono inevitabili: aprendo porte a soluzioni (o cure) che - ammesso che esistano - non potranno che essere talmente drastiche da risultare spaventose, a prescindere da dove le si voglia guardare.

Angosciante, cupo, spietato. 
Senza fare spoiler, possiamo dire, quindi, che mai il cinema dei fratelli D'Innocenzo si è spinto così a fondo, ha toccato punti cosi bui, disperati, cattivi. Ma forse è proprio per questo motivo che il cinema di "Dostoevskij" riesce a caricarsi di tutta questa potenza, di tutta questa intensità, ostentando uno sguardo affilatissimo e viscerale verso le ombre più nere della natura umana. 
Cinque ore (circa) che volano via come se nulla fosse, in cui bellezza e inquietudine vanno a braccietto, marchiando a fuoco i nostri occhi e prendendo a pugni i nostri stomaci. Mandandoci a casa, infine, con un senso di dolore e di pesantezza che non vuol saperne di andare via e ci farà compagnia per buona parte delle ore successive.
Ma nonostante ciò, siamo coscienti che è valsa la pena salire a bordo.

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