The Whale - La Recensione

The Whale Film

C’è stata una metamorfosi in Darren Aronofsky.
Una metamorfosi che, cinematograficamente parlando, dovrebbe essere ormai sotto gli occhi di tutti: se non altro per via della decadenza di un autore che all’improvviso ha cominciato a pensare e ad agire come se fosse la sua nemesi. 
A remarsi contro, in sostanza.

E a proposito di nemesi – ma anche a proposito di metamorfosi e di remi! – al cospetto di “The Whale” si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un punto di svolta; faccia a faccia col paradosso più estremo. Perché qui Aronofsky va a prendersi un copione – quello teatrale di Samuel D. Hunter – che gli permette di portare in scena una sorta di surrogato di “The Wrestler”, rinegoziando però ogni buona scelta che aveva contribuito a rendere il film con Mickey Rourke intenso e interessante.
E non si capisce se lo faccia per rivendicare questa nuova consapevolezza di sé, oppure come tentativo pratico e disperato di recuperare un tocco che, evidentemente, stenta a ritrovare. Sta di fatto che la parabola di Charlie – professore universitario auto-esiliatosi in casa, per via del suo aspetto fisico che lo ha portato a ingrassare più di 250 chili – così come viene raccontata e messa in scena, è un susseguirsi di situazioni e di dialoghi che tendono a strizzare l’occhio a una retorica di plastica e quindi – cosa più importante – poco sincera. In particolare per quanto riguarda il mea culpa che lo ossessiona e che porta con sé prese di posizioni cruciali - tipo l’urgenza di ricucire il rapporto con una figlia abbandonata - che stentano a fare il paio con la logica e la coerenza di un passato rivangato e ricostruito dalle presenze che, puntuali (e casuali) e a cadenza regolare(!), invadono il suo salotto.

The Whale Fraser

Una spontaneità – teorica – che non viene mai percepita come tale, insomma.
Tutto accade perché deve accadere e perché deve accadere in quel momento preciso, e in quel modo preciso. Non solo le irruzioni, o gli affetti con i quali Charlie comunica e si apre (a noi pubblico) dolcemente, tirando fuori la sua sensibilità e la positività che lo contraddistinguono. Ma pure il significato di certe figure che si materializzano, neanche fossero figlie di un puntuale miracolo: come quella del giovane missionario Thomas che, ad un certo punto, decide che per espiare il suo di peccato ha bisogno di salvare Charlie dal martirio. Una presenza, quella religiosa, quella di Dio, alla quale (il nuovo) Aronofsky sente di non poter più rinunciare, maneggiandola simbolicamente e forzatamente, alla stregua di una mano, pronta a tirarti fuori dall'acqua un istante prima di affogare. Il problema è che di tutto questo dolore, di tutta questa condanna auto-inflitta non viene fornita mai una spiegazione che sia davvero sostenibile, le cose stanno così, punto, e lo stesso vale per una fiducia verso il prossimo espressa sempre a parole, ma per niente a fatti.

E, allora, questo testamento di uomo, padre e (amante)peccatore che “The Whale” cerca di imbastire, finisce col mancare di plausibilità, della naturalezza necessaria a renderlo autentico, viscerale, appassionante. Troppo appesantito da meccaniche, concetti ed espedienti che vanno a ridurne il potenziale e l’universalità di fondo.
Discorso a parte, ovviamente, per la performance di Brendan Fraser, che – come fu per Rourke – esce da questa tempesta da trionfatore unico e assoluto. Pronto a tornare – nel caso lo volesse – nelle liste degli attori arruolabili di Hollywood.

Trailer:

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