Empire Of Light - La Recensione

Empire Of Light Poster

Mentre vedevo il foyer del cinema Empire illuminarsi e prendere vita, con la mente tornavo ad un altro di cinema: il Maestoso. Un luogo storico di Roma, del quale, a distanza di cinque anni ormai, si continua a sentire la mancanza: specialmente perché da quando è stato chiuso, niente ha avuto ancora il coraggio di prendere il suo posto.
È rimasto lì, spento.
Come una magia che, di colpo, smette di funzionare. 

E pure “Empire Of Light” somiglia molto a una magia.
Ma in questo caso il merito è di Roger Deakins – che forse è il più grande direttore della fotografia contemporaneo – che, rispettando sacralmente la parola luce nominata nel titolo, riesce a fare di ogni inquadratura un piccolo capolavoro. È lui l’uomo ombra a cui Sam Mendes si affida per costruire l’anima del suo film. Un film che, non nasconde, essere personale sotto vari punti di vista, e nel quale chiama in causa la malattia della madre – la depressione – e l’epoca in cui il cinema ha cominciato a influenzare (a salvare?) la sua vita. Ed è tra le mura di questo Empire che le esistenze dei protagonisti si accendono, si elettrizzano, dove, nel bene o nel male, le cose accadono e tutto sembra finalmente avere un senso. Ce ne rendiamo conto seguendo la Hilary di una strepitosa Olivia Colman, quando si trova all’esterno: alle lezioni di ballo che prende impacciata, dal medico al quale mente sull’utilizzo del litio e a casa mentre a travolgerla è la solitudine. Nessun posto è come l’Empire. Nessuno spazio è così profondo. Tant’è che è proprio lì che scatterà la scintilla con il giovane Stephen: il nuovo assunto col quale entra subito in empatia, instaurando una relazione che risulterà sia spigolosa che sbagliata.

Empire Of Light Film

E sbagliata, soprattutto perché è qui che la magia, di colpo, smette di funzionare. 
Qui, che l’Empire passa in secondo piano e, quasi, si spegne. Come se Mendes non sapesse più che direzione prendere e, all’improvviso, forzasse la mano prendendone una capace di accontentare tutti. Ma non perché sia la migliore possibile, semplicemente perché è quella verso la quale nessuno può permettersi di disquisire. E quindi, quella che sembrava essere una storia sul cinema, una dichiarazione d’amore verso un’ancora di salvezza, diventa il racconto di due entità accomunate ognuna dalla minoranza che le contraddistingue. Lei donna, stanca di essere pedina del maschilismo. Lui nero, condannato all’oppressione e alla ricerca di riscatto (sociale). Ovviamente, a giocare contro la coppia, entra in ballo la retorica, che raffredda la presa emozionale e appiattisce un lavoro che avrebbe potuto tranquillamente piazzarsi al fianco del “The Fabelmans” di Spielberg, e dell’“Armageddon Time: Il Tempo Dell'Apocalisse” di James Gray: tutti e due – chi più (Spielberg), chi meno (Gray) – assai più a fuoco ed autentici.

Quando ritorna sui suoi passi, infatti, è troppo tardi per Mendes.
Non c’è modo di cancellare una deviazione che è tanto marcata, quanto invadente. Nemmeno il fascio di luce del proiettore e il buio della sala che proietta “Oltre Il Giardino” con Peter Sellers, possono compiere il miracolo. E al regista non resta da far altro che mea culpa, recriminando per l’occasione sprecata.

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