Si apre con un gruppo di immigrati siriani che arriva in un villaggio del nord-est dell'Inghilterra – vicino Newcastle – per fuggire dalla guerra che sta affliggendo il loro paese, “The Old Oak”.
Ma neanche il tempo di scendere giù dal pullman, che subito si accorgono che l’accoglienza (e la permanenza), per loro, sarà tutt'altro che in discesa. La comunità locale, infatti, sta attraversando un forte momento di crisi economica (e sociale), il mercato immobiliare del quartiere è in netta svalutazione e la rabbia e la frustrazione di chi si sente imprigionato e vittima della politica, fanno da padroni. Prendere di mira i nuovi arrivati quindi – schierandosi a prescindere (e gratuitamente) contro di loro – diventa lo sport più facile da praticare. Col solo TJ Ballantyne – il proprietario del malconcio pub del titolo – che non dimentica da dove viene, e che cerca di smorzare i toni.
Come potevamo immaginare, Ken Loach mette in scena il cinema (politico) che più lo contraddistingue e che sa urlare al (tempo) presente come forse nessun altro in circolazione. Dentro “The Old Oak” ci sono una valanga di tematiche attuali, al punto che risulta quasi impossibile non sentirsi chiamati in causa, interessati e complici. Perché quello che ci mostra Loach – e che dice letteralmente, pure – è che il razzismo di oggi è più figlio dell’impotenza di ribellarsi ai potenti che una questione di appartenenza. Prendersela con chi sta sotto di noi, con il debole, è un gioco al quale in molti di noi hanno aderito, purtroppo, magari anche a causa di certa propaganda perpetrata da coloro che cercavano un escamotage per svicolare dalle proprie (e scomode) responsabilità. Ma un gioco che, però, non paga e che non da sollievo a nessuno. E il TJ protagonista pare sia l’unico abbastanza lucido da averlo capito: stemperando le chiacchierate che i suoi amici intavolano nel suo pub tra una pinta e l’altra (e frenandone altresì le iniziative) e tentando di rendersi utile nei confronti di chi non per scelta, ma per necessità, si ritrova a vivere in un luogo sconosciuto e ostile, lontano da casa e dagli affetti più cari.
Eppure, la chiave per risolvere i problemi, se c’è, sembra venire dal passato.
Precisamente da una foto attaccata alla parete di un'ala abbandonata del locale, in cui figurano dei minatori riuniti a tavola e uno striscione, appeso al soffitto, che dichiara: mangiare insieme, può aiutare a cementare un gruppo. Praticamente, una sorta di variabile della nota affermazione: l’unione fa la forza. Una frase fatta, apparentemente. Semplicistica, potremmo dire. Ma per Loach, probabilmente, da rispolverare e da far nostra di nuovo. Perché la spaccatura sociale, ormai, è palese. Preoccupante. Ma, soprattutto, controproducente. E la bellezza commovente di “The Old Oak” sta tutta nella voglia sincera, e mai intrisa di retorica – e né tantomeno di melassa – di rimetterci in contatto con questi sentimenti, di farci riscoprire il valore e l’influenza (positiva) che la solidarietà può apportare nella vita della collettività e del singolo, rompendo le barriere (dell’odio e della solitudine) e creando legami.
Con buona pace di quei dissidenti che resteranno in circolazione, intenti a far danni.
Con buona pace di quei dissidenti che resteranno in circolazione, intenti a far danni.
E se nella scena che anticipa i titoli di coda, Loach, è facile si lasci un po’ prendere la mano dalle passioni, è altrettanto vero che stavolta, per gran parte della pellicola, riesce a controllare perfettamente la sua tendenza recente di portare all’eccesso determinate situazioni. Amalgamando con equilibrio narrazione, denuncia sociale e sconfinata voglia di continuare a lottare per un mondo migliore.
Anche a ottantasette anni.
Anche per (forse) l'ultima volta.
Anche a ottantasette anni.
Anche per (forse) l'ultima volta.
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