C'è un momento, in "Beetlejuice, Beetlejuice", in cui la Astrid di Jenna Ortega, seccata dal comportamento della madre - la Lydia di Winona Ryder - prende la bicicletta e si allontana da casa pedalando velocissima in strada, non curante dei pericoli che puntualmente sfiora e che potrebbero provocarle un incidente fatale. È una scena bellissima, forse la più bella del film, in cui stacchi di montaggio ed effetti sonori si mescolano raggiungendo la perfezione e dimostrandoci quanto Tim Burton sia ancora capace e abbia ancora voglia di fare questo mestiere, ed è una scena importante, anche, perché serve a farci capire di preciso quali sono le intenzioni di questo sequel: che flirta e stuzzica perennemente con l'aldilà e con la morte.
Lo fa, come se volesse sottendere che il meglio è passato, sepolto, andato via, che è un po' quello che pensa Astrid, orfana di padre e non esattamente legata a sua madre (o a qualcuno). Un rapporto conflittuale, il loro, che non sembra voler trovare il modo di risolversi e risanarsi: probabilmente perché nemmeno Lydia, da parte sua, ha intenzione di affrontare il presente, subendolo e restando incastrata in una vecchia comfort-zone che l'ha trasformata, ormai, in una specie di medium televisiva da quattro soldi. II paragone, allora, è presto fatto, anzi a farlo è stato proprio Burton in persona: che a Venezia, in conferenza stampa, ha parlato di quanto il suo stato d'animo fosse molto vicino e molto simile a quello di queste due protagoniste. Tornare indietro, allora, poteva essere l'unico modo per trovare la spinta necessaria ad andare avanti. E se a dartela, quella spinta, è pure un Michael Keaton che non vede l'ora di rivestire i panni del suo irresistibile personaggio, magari è davvero il caso di prendere in considerazione l'idea. Sarà per questo, quindi, se guardando "Beetlejuice, Beetlejuice", l'impressione che si ha è quella di vedere un film realizzato più per andare in soccorso del suo autore, piuttosto che per soddisfare il palato, oppure un'esigenza, di noi spettatori.
Sembra quasi di essere i partecipanti attivi di una defibrillazione, con scariche elettriche che a volte vanno a segno, stimolando il paziente e incoraggiandone un risveglio, e a volte vanno a vuoto, annullando le speranze di una piena ripresa. Qualche guizzo, infatti, c'è all'interno della pellicola, sebbene sia più coerente parlare di lampi e non di sequenze lunghe o di parentesi vere e proprie. Burton si accende quando Keaton è in scena, per lo più, quando la lurida personalità di Beetlejuice gli permette di sciogliersi e di fare praticamente come gli pare, reinserendo il pilota automatico non appena la storia lo costringe a tornare nei ranghi, a seguire gli schemi e abbandonare il cazzeggio libero. E questo perché esistono degli standard da rispettare, aspettative da mantenere e sono per la maggior parte legate ai fili di un titolo che ha il dovere - purtroppo - di legarsi, anzi, di incatenarsi al suo capostipite. Ricalcandone le orme, addirittura. La scena del ballo a tavola, per esempio, che oggettivamente era l'apice del divertimento nel primo "Beetlejuice", qui torna ripensata e riadatta all'interno di una chiesa. Funziona uguale? Assolutamente no. Ma è una connessione diretta che, secondo un regolamento non scritto, ma comunque esistente a livello produttivo, non può mancare di manifestarsi.
Difficile fare una stima dello stato psico-fisico e artistico di Burton, a questo punto.
O meglio, per quanto visto, questo ritorno non preannuncia nessun miglioramento rispetto a quanto già annotato nelle ultime (scariche) uscite. Lui, però, ammette che realizzare "Beetlejuice, Beetlejuice" gli è servito a ritrovare lo spirito che aveva perduto, come se da ora in avanti potremmo assistere ad una possibile sua rinascita, un risveglio.
E se il paziente non mente, ben venga.
Certo, stando ai risultati delle analisi sopra citate, la completa guarigione a noi appare lontana.
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