Basta una frase, una battuta, per inquadrare "Parthenope".
Per inquadrare l'essenza di "Parthenope".
Per inquadrare l'essenza di "Parthenope".
Un film in cui Paolo Sorrentino riesce ad esplorare tante cose, tanti argomenti, mentre racconta, però, quel che nel suo cinema e nella sua filmografia è sempre stata un'ossessione.
La giovinezza.
E con lei, la spensieratezza.
La giovinezza.
E con lei, la spensieratezza.
Lo fa attraverso la vita (e l'intelligenza, e gli occhi, e la bellezza, e la carne) di una donna - Parthenope, appunto - che nasce con un destino già scritto, praticamente, che la porterà a identificarsi e a fondersi anima e corpo con la sua città di appartenenza, quella Napoli che Sorrentino aveva già raccontato poeticamente in "E' Stata La Mano Di Dio", ma che qui viene presa e dissezionata anche nella sua psicologia, nel suo carattere. Una Napoli bellissima, attraente e affascinante. Ma pure volgare, spietata e fredda. Ambigua e misteriosa. Come Parthenope, insomma, che attira la curiosità e la fame (non solo sessuale) di uomini e donne che vogliono corteggiarla, amarla, parlare con lei, conoscerla a fondo ("A cosa stai pensando?", le viene chiesto a più riprese). Ma ogni tentativo è vano. Perché Pathenope ha sempre la risposta pronta. Ed è una risposta a effetto, centrata, ironica. Che smorza l'atmosfera, aumentando il desiderio. Quel desiderio inarrivabile e, forse, impossibile di riuscire a leggerla, a comprenderla, dominarla (e domarla). Una forza della natura, anzi no, della giovinezza, quella preziosa, quella a scadenza, quella che il sublime John Cheever di Gary Oldman non le vuole rubare, rifiutando di farsi accompagnare da lei per una passeggiata notturna. Quella giovinezza di cui non ci rendiamo conto, o di cui ci rendiamo conto troppo tardi, quando siamo adulti, quando realizziamo lo spreco che ne abbiamo fatto.
Ecco perché è un film malinconico, "Parthenope". Nostalgico.
Un film in cui Sorrentino riesce tramite la sua intelligenza e la sua furbizia - che però è pure bravura nel saper scrivere ed incantare - a descrivere uno stato interiore sofferente, tormentato. Il suo, probabilmente, ma non sarebbe un'utopia immaginare possa essere (o diventare presto) quello di ognuno di noi. Del resto, è ineluttabile il tempo. Come l'essere umano. E non è un caso se dentro la sua pellicola, la protagonista sceglie di studiare antropologia all'università. Una materia della quale non conosce neppure il significato preciso. Una materia che dovrebbe servire a rispondere agli interrogativi (esistenziali), ma che pure il meraviglioso professore di Silvio Orlando (ha) fatica(to) a mettere a fuoco, o comunque protegge ironicamente, tenendo per sé quella che sarà poi la definizione sicuramente più lucida ed azzeccata. Perché la sete di sapere è come una condanna, e la fregatura è che certe cose le puoi capire solo quando ormai sei adulto. Quando ormai è troppo tardi.
Come per lo strano rapporto che c'è tra gli amori giovanili e l'inutilità.
Come per lo strano rapporto che c'è tra gli amori giovanili e l'inutilità.
Forse.
E, forse, Parthenope, in questo viaggio lungo una vita intera, se ne renderà conto.
Lo farà interagendo con personaggi strani, con situazioni assurde - il Cardinale, la fusione tra clan avversi, il mondo del cinema - con lo sguardo visionario e distorto di un Sorrentino ispiratissimo, brioso ed emozionante: e che ci fa venire i brividi con un lento ballato sotto le note di "Era Già Tutto Previsto" di Riccardo Cocciante. Un Sorrentino che qui torna a toccare temi delicatissimi, universali, che passano persino per un possibile (e sfiorato) amore tra fratelli, figlio di una fragilità estrema e di una realtà evidente (perciò crudele) e quindi condannato a sfociare nella resa e nell'abbandono al suicidio. Un gesto cruciale, capace di poter uccidere di colpo spensieratezza, gioia e vitalità. Di interrompere quel sogno - spontaneo e ingenuo - e quell'illusione di un mondo ai nostri piedi. Di una perfezione e una bellezza che, a questo punto, per sopravvivere, è necessario imparare a distinguere e a riconoscere anche in forme diverse, contrarie, sporche.
Quel concetto di vedere, insomma, che inevitabilmente fa rima con crescere, invecchiare, col pensare ai ricordi. Trascinandoci fino ai dubbi di un'esistenza vissuta intensamente, oppure buttata via e lasciata andare.
Bella domanda.
Lo farà interagendo con personaggi strani, con situazioni assurde - il Cardinale, la fusione tra clan avversi, il mondo del cinema - con lo sguardo visionario e distorto di un Sorrentino ispiratissimo, brioso ed emozionante: e che ci fa venire i brividi con un lento ballato sotto le note di "Era Già Tutto Previsto" di Riccardo Cocciante. Un Sorrentino che qui torna a toccare temi delicatissimi, universali, che passano persino per un possibile (e sfiorato) amore tra fratelli, figlio di una fragilità estrema e di una realtà evidente (perciò crudele) e quindi condannato a sfociare nella resa e nell'abbandono al suicidio. Un gesto cruciale, capace di poter uccidere di colpo spensieratezza, gioia e vitalità. Di interrompere quel sogno - spontaneo e ingenuo - e quell'illusione di un mondo ai nostri piedi. Di una perfezione e una bellezza che, a questo punto, per sopravvivere, è necessario imparare a distinguere e a riconoscere anche in forme diverse, contrarie, sporche.
Quel concetto di vedere, insomma, che inevitabilmente fa rima con crescere, invecchiare, col pensare ai ricordi. Trascinandoci fino ai dubbi di un'esistenza vissuta intensamente, oppure buttata via e lasciata andare.
Bella domanda.
E voi, invece? A cosa state pensando?
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