Nella scena di apertura di "The Dead Don't Hurt" vediamo un cavaliere aggirarsi in solitudine intorno a una foresta. Stiamo parlando di una clip brevissima (di pochi secondi), alla quale segue uno stacco che ci riporta nell'America di frontiera del 1870 (all'incirca), presente in cui è ambientato il western scritto, diretto e interpretato da Viggo Mortensen. Lui che, come Kevin Costner, ha deciso di firmare la sua opera seconda dedicandosi a un genere che non paga, in difficoltà, per certi versi repellente al pubblico (in sala?), ma che come un Don Chisciotte qualunque, che si aggira per il bosco, appunto, continua a difendere, a sostenere, celebrandolo armato di romanticismo e di passione.
Aggettivi che potremmo tranquillamente copiare e incollare anche per quanto riguarda la trama della pellicola, che saltando tra piani temporali differenti - prima, durante e dopo la Guerra Civile Americana - sembra voler raccontare storie diverse destinate - e sarà così - a congiungersi in qualcosa di molto più grande, di epocale. E quindi si parte con l'Holger Olsen di Mortensen intento a seppellire davanti al suo figlioletto, la Vivienne Le Coudy di Vicky Krieps, disturbato dal Sindaco del paese, venuto a informarlo - in quanto sceriffo - di un processo che si terrà a breve e che vedrà come imputato un assassino, colpevole di aver ucciso una manciata di uomini a sangue freddo. L'uomo in questione però è un sostituto, e lo sappiamo perché il vero responsabile lo abbiamo già visto all'opera. Il processo è (palesemente) una farsa, quindi, e dal comportamento di Olsen, a seguito dell'episodio, capiamo che in mezzo a tutto questo c'è un mare di roba da dover scoprire. A questo punto "The Dead Don't Hurt" compie una scelta che non ti aspetti, perché quando Mortensen sale a cavallo, liberatosi dal distintivo, le conclusioni partorite dalla nostra testa ci suggeriscono di un viaggio prossimo a dar vita alla classica giustizia privata: il cowboy che si fa legge e va a correggere la corruzione istituzionale. Ma invece no, d'improvviso Mortensen cambia registro e fa un salto indietro nel tempo, lascia spazio a Krieps, promuovendola protagonista e racconta un melodramma apparentemente lontano dalle premesse, eppure sostenuto da un filo logico che si rivelerà solidissimo.
Dimostra di avere la situazione in pieno controllo, dunque.
Come Costner, Mortensen è uomo e artista (e vuole essere un regista) d'altri tempi, o perlomeno legato ad essi. Il cinema che ha scelto - da attore - è sempre stato legato a qualcosa di profondo, ideologico, istintivo e in questa sua nuova veste autoriale la situazione non cambia di una virgola. Casomai si amplifica. Perché "The Dead Don't Hurt" come operazione non è poi così distante da "Horizon", tra loro ci sono milioni di dollari (e ambizioni, e capitoli) di differenza, per carità, la densità del racconto non è nemmeno paragonabile, ma in entrambi i casi c'è la volontà di portare sul grande schermo la grande Storia (americana). Una Storia caratterizzata da immigrazione, guerre, violenza, sangue, elementi che emergono chiaramente nel contesto, pur non diventando mai né didascalici e né retorici. Restano li, sullo sfondo, a influenzare le scelte e le direzioni (e la sorte) di tutti i protagonisti, andando a scolpire il cambiamento (crudele, doloroso, sporco) sia loro che di una società alle prese con la fine di un mondo - e non è un caso se questa sia proprio l'ultima battuta, anticipatoria dei titoli di coda - e l'inizio di un altro. Un mondo nuovo, futuro, pieno di promesse (false) e che impareremo a conoscere meglio come far west.
E, allora, tanto di cappello a due Don Chisciotte come Mortensen e Costner.
Tanto di cappello al loro fregarsene altamente degli schemi, degli algoritmi, tendenze e consigli di produttori incoscienti. Perché c'è una testardaggine che è salutare e che va salvaguardata, e non può (per forza) andare a braccetto con gli incassi, con l'hype (che brutto termine), o con i calcoli a tavolino.
Con l'arte si, invece, e pure con la bellezza. Trasmettendo la rara sensazione di catturare, affascinare e poi scaldare il cuore.
Con l'arte si, invece, e pure con la bellezza. Trasmettendo la rara sensazione di catturare, affascinare e poi scaldare il cuore.
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