Chi lo ha visto a Venezia lo ha paragonato a "50 Sfumature di...", definendolo fuori luogo, imbarazzante, ridicolo. Qualcuno ha addirittura protestato per la Coppa Volpi alla migliore attrice femminile assegnata a Nicole Kidman, la quale, avendo intuito l'astio generale, ha provato a difendere sé stessa appellandosi alle donne e al loro diritto al desiderio (e all'orgasmo), molto spesso trascurato (da noi uomini).
Insomma, "Babygirl" è (stato) un caso cinematografico istantaneo, uno di quelli che arrivano al cinema già con una storia di polemiche pregressa, una corrente di pregiudizi e qualche estimatore che, non potendo interpretare esattamente il ruolo del bastian contrario (giustamente), si limita a difenderlo, normalizzandolo, e quindi senza esaltarlo e senza demolirlo.
Lato dal quale, onestamente, sento di schierarmi anche io.
Eppure, non è che i (tanti) detrattori siano in torto, oppure faziosi o, peggio ancora, impazziti. Guardando la questione da un diverso punto di vista, bisogna ammettere che un po' sul filo la regista e sceneggiatrice olandese Halina Reijn ci gioca, eccome (volontariamente?). Altrimenti non te lo spieghi perché la Romy di Kidman comincia a fantasticare sul giovane (stagista) Samuel per la prima volta, quando lo vede addomesticare un cane aggressivo che stava per aggredirla in strada. Un sottotesto che verrà reiterato e sul quale i due si scambieranno battute, mettendo alla prova, ogni volta, noi spettatori per non cadere nella trappola della battuta spontanea e pecoreccia. Bisogna fare uno sforzo, dunque. E ripeterlo, magari. Anche perché l'argomento non è poi cosi banale, anzi. E non lo è perché questa non è una storia d'amore tra una donna matura che vuole togliersi il capriccio di avere un toyboy, come non è neanche una storia di sesso, alimentata da una crisi di mezza età o da chissà che cosa. Qui si parla di fantasie sessuali da soddisfare, di lati oscuri inconfessabili e di due personalità che si incontrano e intuiscono (un po' flirtando, un po' tramite chimica) di poter (liberare e) incastrare le loro deviazioni alla perfezione (e insicurezze, fragilità). Quella che instaurano - e se lo dicono a chiare lettere - non è una relazione, non prevede sentimenti, invasioni, ma è uno spazio libero in cui sfogare ciò che per anni hanno dovuto reprimere per svariati motivi (società, giudizio, paure).
Per cui ci sta se, ad osservarli da spettatore, magari qualcuno si sente a disagio, istintivamente tende a respingerli, o lasciarsi andare all'umorismo (facile). Del resto, ciò che fanno è cosi personale, privato, intimo che non deve per forza essere condivisibile. Non può esserlo (altrimenti non sarebbe trasgressione). Discorso diverso, però, vale per ciò che ruota attorno a questa storia, ovvero a come "Babygirl" intende ragionare sul potere, sulle sue dinamiche e sulle responsabilità che esso comporta. Perché tutta la differenza del mondo qui la fa il personaggio di Kidman: amministratrice delegata, donna in carriera, modello femminile, punta della piramide. E pure madre, moglie modello con un matrimonio (apparentemente) felice e due figlie amorevoli. Una figura diventata esempio per chi lavora con lei, e per lei, e che rischia di cadere in mille pezzi - di perdere tutto - solamente perché non è accettato (e non è accettabile) che le piaccia essere umiliata all'interno della sua camera da letto: smania che il marito Antonio Banderas - commediografo - non riesce ad assecondare ("Mi sento un villain!", le dice) e nemmeno a capire (lo vedremo nel finale) e che impedisce a lei di provare orgasmi (da diciannove anni), consolandosi con i porno. "Sono sbagliata!", dice, ormai giunta al capolinea e travolta dai sensi di colpa, chiamando in causa terapia, infanzia e genitori, pur di trovare un senso a quel che gli passa nella testa.
E, allora, il vero dibattito dovrebbe esserci non tanto per le scene in cui Kidman beve latte da un piattino come farebbe un gattino indifeso, quanto per il faccia a faccia che c'è tra lei e la Esme di Sophie Wilde, quando le intima (la minaccia) di rimettersi in riga e di recuperare quel girl power che lo stress e le pressioni le hanno fatto perdere. Deve tornare ad allevare soldatesse nella sua azienda e riprendere la lotta contro un patriarcato che vedeva in lei un potenziale e temibile nemico: alludendo a un'impossibilità di poter incarnare entrambe le cose.
Va da sé, quindi, che di materiale per discutere, accapigliarsi e litigare ce n'è in abbondanza nella pellicola di Reijn, che chiude con un finale discutibile (troppo comodo?) e che forse era essenzialmente al polverone che mirava - in tal caso, complimenti - quando, seduta alla sua scrivania, ha deciso di partorire dal nulla il suo "Babygirl".
Trailer:
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