Mentre mi avvicinavo all'orario in cui ci sarebbe stata l'anteprima stampa di "La Città Proibita" pensavo a Gabriele Mainetti. Pensavo a quanto questo suo terzo film fosse uno spartiacque per lui, dopo l'insuccesso pesantissimo subito con "Freaks Out". E più ci riflettevo, più mi convincevo che stavolta Mainetti non poteva sbagliare, che se poco poco avesse nuovamente mancato il bersaglio, tutte le porte spalancate da "Lo Chiamavano Jeeg Robot" si sarebbero richiuse, riportandolo essenzialmente al punto di partenza. Mi è venuto in mente, addirittura, che per cadere in piedi, avesse ambientato l'universo di questo film in quello di Jeeg Robot e che, ad un certo punto, Claudio Santamaria sarebbe apparso all'improvviso. Cosi, giusto per avere un jolly da giocare nel caso le cose sarebbero andate male. Un crossover, una wild card.
Fantasie mie. Fantasie stupide, errate. Uno perché di Santamaria non c'è ombra e due perché "La Città Proibita" funziona alla grande.
E probabilmente funziona alla grande perché Mainetti torna agli antipodi, mette da parte le megalomanie che lo avevano fatto uscire fuori strada e si accontenta - si fa per dire - di mettere su una storia orientativamente più contenuta, facile da gestire. Le ambizioni però non si abbassano, gli sforzi produttivi - almeno visivamente - sono maggiori del suo fortunato esordio e, perciò, il passo avanti, per quanto passettino, è percepibile, apprezzabile. Il marchio di fabbrica, insomma, è ancora il suo, riconoscibilissimo, preponderante, con vari generi che si mescolano e che si danno il cambio tra loro, abbracciando il kung-fu-movie, il thriller, il gangster-movie, il melodramma ed il romance. Un papocchio - come direbbe il Marcello-cuoco protagonista - dal sapore piacevole, a volte buonissimo, raramente indigesto. E che l'onda è quella giusta lo si intuisce da subito, da un prologo eccellente - ma lo era pure quello di "Freaks Out" - che ci catapulta nella Cina prigioniera della politica del figlio unico, raccontando di questa famiglia costretta a nascondere una delle due figlie (bambine), dagli occhi indiscreti di eventuali (e pericolosi) passanti. Un'informazione da mettere in tasca e da tenere in considerazione quando uno stacco ci porta avanti nel tempo, ai giorni nostri, in un sotterraneo dove giovani donne cinesi stanno per essere forzate al mestiere della prostituzione da una severissima signora. Tra le potenziali vittime, ce n'è una che continua seraficamente a non obbedire agli ordini e presto scopriremo che, in sostanza, lo sta facendo perché sa menare come un fabbro. Termine non casuale, se pensiamo a come la scena va avanti, trascinandosi nelle cucine e poi nel salone di un ristorante cinese (con clienti presenti) e continuando a suggerire (e a ingannare) a noi spettatori di trovarci ancora nelle terre orientali. Salvo scoprire, solo in un secondo momento, che in realtà la storia si è già spostata a Roma. Nel quartiere Esquilino. Ed il motivo è che Mei - la cinese che mena come un fabbro, appunto - sta cercando la sorella scomparsa, finita nel giro di prostituzione di un capo della Chinatown romana piuttosto noto e proprietario di un ristorante (bordello e bisca) chiamato come il titolo della pellicola. Ricerca che la fa incrociare prestissimo col giovane Marcello, cuoco del ristorante di famiglia collocato nel quartiere e figlio di un padre che ha abbandonato lui e la madre per fuggire chissà dove - dicono - proprio con la sorella di Mei.
Il mistero si infittisce, insomma, ed è un bene, perché permette a "La Città Proibita" di ingranare sin da subito la marcia, tenere alti i ritmi e noi spettatori sulla corda (quantomeno della curiosità). Come accennato, Mainetti spiana davanti a sé un canovaccio che conosce (e che conosciamo) e che ha dimostrato di saper maneggiare: la Roma criminale, i combattimenti (credibilissimi e ben coreografati), la voglia di (un) riscatto. Lo fa trafugando citazioni a destra e a manca: i film di kung-fu, certo, ma pure quelli di Tarantino delle Wachowski e chi più ne ha (o ne trovi) più ne metta. Ma nonostante la pressione - nettamente aumentata nei suoi confronti - trasmette comunque l'idea di qualcuno che si sta divertendo, sciolto, a proprio agio. Sensazione che trasmette di riverbero pure a noi spettatori, oggettivamente coinvolti e intrattenuti tra azione, spettacolo e risate. Ogni tanto capita scivoli in qualche buca, ma siamo a Roma, del resto, e sono leggerezze che gli si perdonano facilmente. Specie perché la maturità stavolta è cosciente, concreta, priva di quell'imprudenza di chi deve spararla per forza grossa e carica dell'intelligenza di chi vuol portare a casa un prodotto stravagante, ovviamente, per il cinema italiano, ma confezionato con cura e - dettaglio fondamentale - alla portata sia dei suoi mezzi che del budget a disposizione.
Finalmente una conferma, quindi.
La conferma che aspettavamo (e, in fondo, speravamo) e che per Mainetti arriva, paradossalmente, lontano dai suoi storici compagni di squadra: gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti. A scrivere la "La Città Proibita" con lui, infatti, ci sono Stefano Bises e Davide Serino, recentemente protagonisti delle scene, perché autori della serie televisiva "M: II Figlio Del Secolo". Un collegamento (politico) che ritorna, se vogliamo, qui nel personaggio di Marco Giallini, cruciale per quanto riguarda lo scioglimento della trama e pure unico personaggio ad avere echi di fascismo e di nazionalismo (il dinosauro), tipici di una certa frangia. Il che darebbe spunti di riflessione addirittura più profondi da applicare alla pellicola, che mostra non a caso uno spicchio di Roma in cui varie etnie si mescolano e convivono gioiosamente. Ma forse così rischieremmo di spostare troppo l'attenzione, di voler vedere oltre ciò che davvero c'è e si voleva realizzare.
La conferma che aspettavamo (e, in fondo, speravamo) e che per Mainetti arriva, paradossalmente, lontano dai suoi storici compagni di squadra: gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti. A scrivere la "La Città Proibita" con lui, infatti, ci sono Stefano Bises e Davide Serino, recentemente protagonisti delle scene, perché autori della serie televisiva "M: II Figlio Del Secolo". Un collegamento (politico) che ritorna, se vogliamo, qui nel personaggio di Marco Giallini, cruciale per quanto riguarda lo scioglimento della trama e pure unico personaggio ad avere echi di fascismo e di nazionalismo (il dinosauro), tipici di una certa frangia. Il che darebbe spunti di riflessione addirittura più profondi da applicare alla pellicola, che mostra non a caso uno spicchio di Roma in cui varie etnie si mescolano e convivono gioiosamente. Ma forse così rischieremmo di spostare troppo l'attenzione, di voler vedere oltre ciò che davvero c'è e si voleva realizzare.
Trailer:
Commenti
Posta un commento