Una costante della filmografia (corta) di Sean Byrne è la presenza di un weirdo a capo della trama, di una disgrazia umana che scatena gli eventi. Trattasi di soggetti, sostanzialmente, disturbati, emarginati dalla società - per volontà, o loro malgrado - e che si ritrovano a rovinare la vita a colui, o a colei (o a coloro) che per un caso sfortunato, vengono individuati come prede. Un autore, Byrne, che di sicuro non ha interesse a diventare il prototipo del mainstream, anzi, le sue storie - i suoi horror - molto spesso tendono a tirare molto la corda, a spingersi al limite, costringendo lo spettatore a girare la testa dall'altra parte, o quantomeno a esclamare - com'è successo al sottoscritto con "The Loved Ones" - frasi del tipo: "Ma chi ha scritto questo film, un pazzo scatenato?".
Epperò, "Dangerous Animals" è il primo lavoro di Byrne, nel quale lo vediamo impegnato esclusivamente come regista. Alla sceneggiatura, infatti, troviamo solo il nome di Nick Lepard, un esordiente (o almeno così sembra). E ciò, durante la visione, si percepisce, si nota, perché rispetto al passato, sebbene le tematiche di fondo restino coerenti (il weirdo c'è ancora), c'è una leggera inclinazione a non voler esagerare troppo, a scacciare via una potenziale discesa verso gli inferi peggiori, quelli per stomaci forti. Insomma, per farla breve, stavolta Byrne accetta di darsi una regolata, di fungere da esecutore, realizzando un horror di genere per lo più classico, con il quale entra in connessione però proprio grazie al Tucker, antagonista: un Jai Courtney spaventoso che adesca turisti entusiasti di fare il bagno in gabbia, al largo con gli squali e che dopo averli soddisfatti con l'esperienza (ufficialmente il suo business), si diverte a tenerli in ostaggio e a filmarli, rigorosamente in VHS, mentre di notte li getta in pasto a quelle stesse creature affamate. Uno psicopatico senza attenuanti, anche perché quando la vittima più tosta - la protagonista interpretata da Hassie Harrison - cerca di penetrare nella sua corazza, nella sua psicologia, indagando sul motivo della sua perversione, lui non conferma, ma nemmeno smentisce una ricostruzione che, fosse vera (e potrebbe), resterebbe lo stesso fuori di testa e inammissibile.
Ma è una fortuna, probabilmente, perché questa follia, questo mistero che resta di fronte alle motivazioni (invasate) del serial-killer, oltre a renderlo terribilmente feroce (come uno squalo, appunto, ma pure come ogni archetipo della sua categoria), fanno sì che Byrne riesca a non passare completamente da anonimo impiegato di una pellicola che, altrimenti, avrebbe rischiato di apparire scialba, orfana di spunti e sussulti. Invece, nel complesso, "Dangerous Animals" nel suo voler essere cosi palesemente e orgogliosamente un b-movie dal sapore estivo - uno di quelli che alla lontana, ma che dico alla lontana, alla lontanissima, vorrebbe richiamare l'operazione spielberghiana datata 1975: quando con "Lo Squalo" rovinò l'estate a milioni di americani (sebbene qui, più che ai predatori marini, bisognerebbe stare accorti a quelli umani) - comunica al contempo una discreta personalità, dà l'impressione che alla guida della nave - del peschereccio, in questo caso - ci sia un regista che, a prescindere dai paletti che, magari deve rispettare e gestire, non ha intenzione di silenziare la sua voce (adagiandosi troppo sulla sottotrama della solitudine che pone in parallelo il personaggio di Harrison con quello di Tucker), bensì di scalpitare e, non appena gli è possibile, colpire.
E, allora, pur non colpendo mai fortissimo, pur non mordendo a morte come fanno le creature verso le quali Tucker ha un palese fanatismo, "Dangerous Animals" riesce quantomeno a graffiare e a provocare quel minimo di tensione, di ansia. Il massimo, forse, viste e considerate le premesse e gli intenti che aveva in tasca un progetto così, i cui rischi di incappare in una copia carbone, fin troppo consumata, di chi l'ha preceduto erano stimati alle stelle.
Trailer:
Commenti
Posta un commento