La storia è tanto assurda quanto vera. Siamo negli anni 2000, Billy e Gavin sono due teenager scozzesi che vogliono sfondare nella scena rap e quando capiscono che le case discografiche cercano solo giovani talenti americani, discriminando a priori la loro proposta musicale, decidono di mettere in piedi una grande bugia, con la promessa di sputtanarle poi in diretta su MTV. Si fingono californiani, studiano il nuovo accento tramite l'aiuto dei film e si ripresentano in giro come i Silibil N' Brains. In questo modo, una sera, durante un'esibizione dal vivo, vengono notati da una giovane talent scout e rapidamente la fortuna comincia a girare dalla loro parte. Firmano un contratto ricchissimo, si trasferiscono a Londra e vengono travolti dall'onda del successo. Uno scenario fin troppo bello, forse, per restare coerenti al patto originale e decidere di mandare tutto all'aria. Sebbene l'antico detto delle gambe corte sia sempre lì in agguato.
Sceglie un copione che lo riporta dritto dritto alle sue origini, James McAvoy, per esordire dietro la macchina da presa. Una commedia che, riprendendo una pagina reale della scena musicale, cerca di inquadrare la frustrazione che spesso va a colpire chi vive nella provincia e coltiva ambizioni troppo grandi per quei luoghi: il che, spesso, significa doversi arrovellare per trovare una soluzione abbastanza folle da mettere in pratica. E quella che mettono in pratica Billy e Gavin è tanto creativa, quanto pericolosa, perché li obbliga ad allontanarsi da loro stessi, a dimenticare chi sono, per trasformarsi in qualcos'altro. Una farsa che quando entra nel vivo li trascina in quella giostra stroboscopica e colma di euforia chiamata successo, che gli fa perdere completamente bussola e senso della realtà. Che poi è anche la buccia di banana su cui "California Schemin’" - dopo una partenza piuttosto promettente - scivola, cominciando a subire il classico appiattimento, tipico di queste storie: adagiandosi su stereotipi come la fama, i soldi, la droga e l'alcol che portano fuori dai binari due protagonisti per i quali eravamo pronti a fare il tifo, ma che a un certo punto ci viene difficile continuare a sostenere. Se non altro per come li vediamo voltare le spalle alle loro radici, ai loro valori (alla famiglia), rappresentati simbolicamente, qui, dal personaggio di Mary - la fidanzata storica di Billy - che intuisce immediatamente i flussi negativi che la nuova vita sta portando all'interno del duo e non resta indifferente alle occhiatacce che Gavin gli lancia, provando a spingerla fuori dai giochi, per paura possa farsi sfuggire una parola di troppo e fare cadere l'intero castello di carte.
La leggerezza e la stravaganza ostentata nelle premesse, allora, finisce per perderla quasi completamente "California Schemin’", trasformandosi in un biopic piuttosto canonico e prevedibile, non solo per chi, magari, conosce già i Silibil N' Brains e la loro parabola. Sembra quasi accontentarsi McAvoy, abbracciare la sceneggiatura scritta da Elaine Gracie e Archie Thomson e immaginarla come il trampolino di lancio perfetto per tuffarsi in acque diverse da quelle conosciute, ma senza esagerare con le altezze. Si concede al massimo qualche virtuosismo qua e là che, guada caso, fa il paio con un omaggio - per niente velato - a "Trainspotting", riferimento imprescindibile nella cultura (cinematografica) scozzese, al punto da meritarsi persino un murales gigante tra le vie della città. Segnali minuscoli, appena percettibili, che non spostano il suo lavoro dal semplice intrattenimento mainstream a cui punta, pur incoraggiando - nel caso volessimo vedere il bicchiere mezzo pieno - perché potenziali promesse di un artista che non si accontenta di far solo il compitino, ma palesa interesse e fascinazione verso un mestiere che evidentemente rispetta, al punto da non voler strafare per evitare la frittata.
E infatti "California Schemin’" una frittata non lo è, o se lo fosse sarebbe una frittata di quelle che mangeremmo sempre volentieri. Non il nostro cibo preferito, forse, ma uno di quelli che quando viene messo in tavola, comunque, non si rifiuta mai di assaggiare.
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