In effetti somiglia a un paradiso il luogo in cui Blake Lively decide di andare a surfare prendendosi una pausa dalla sua famiglia; da una tragedia che l’ha appena colpita e da quelle scelte difficili che stanno sempre li a chiederti se vale la pena o meno continuare a lottare. Sembra il posto giusto per svagarsi, distendersi e, magari, tra una nuotata e l’altra, riflettere: questo almeno se di mezzo non ci si mettesse un grosso squalo testardissimo, che non ci sta ad arrendersi e con pazienza decide di girarti intorno aspettando che lo scoglio su cui hai trovato riparo venga coperto dall’imminente alta marea e ti rimetta alle sue fauci.
Perché a volte la vita fa anche un po’ così: quando ti trovi in una fase di transizione, confuso, in alto mare con le scelte, anziché tirarti un salvagente e venirti a salvare, preferisce afferrarti per la gamba e trascinarti a fondo; lo fa per vedere se hai ancora voglia di restare a galla, se l’istinto di lottare ancora respira e se il suo respiro è più in forma di quello della sua controparte, la resa. Metaforicamente infatti è un po’ questa la lettura che c’è sotto a “Paradise Beach: Dentro L’Incubo”, magari, un tantino meno stirata e sistemata rispetto a come ve l’abbiamo riassunta noi, ma comunque piuttosto ordinata per non sfigurare accanto al vestito principale del survival-movie spettacolare su cui il regista Jaume Collet-Serra, legittimamente, tende a voler porre l’accento. Non si perde troppo in fronzoli infatti la pellicola, servendosi di pochi minuti per mettere i puntini sulle “i” e di altrettanto pochi per giungere al dunque e cominciare la sua discesa al cardiopalma fatta di sangue, corse contro il tempo, false speranze e prese di coscienza drastiche quanto sopra ai confini della realtà.
Questo, chiaramente, dopo aver messo abbondantemente in risalto le curve e la sensualità di una Lively su cui, ad essere onesti, esteticamente parlando, ci sarebbe ben poco da dire e molto da osservare.

Preso per quello che è, allora, questo ennesimo film sugli squali assassini non può che soddisfare appieno i palati dei suoi appassionati. Certo, chi si aspettava di vedere l’erede de “Lo Squalo” di Steven Spielberg, forse, si accorgerà presto di aver sbagliato sala, ma con molte probabilità è possibile che, anziché, alzarsi ed uscire insoddisfatto, deciderà di restare lo stesso. Scoprendo suo malgrado che, qualche volta, anche un prodotto di serie-b, se curato con una mentalità da serie-a, può avere il diritto di dire la sua e di dirla persino chiara e forte.
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