Paradise Beach: Dentro L’Incubo - La Recensione

paradise beach poster
La vacanza esotica, la spiaggia segreta, il mare da favola.
In effetti somiglia a un paradiso il luogo in cui Blake Lively decide di andare a surfare prendendosi una pausa dalla sua famiglia; da una tragedia che l’ha appena colpita e da quelle scelte difficili che stanno sempre li a chiederti se vale la pena o meno continuare a lottare. Sembra il posto giusto per svagarsi, distendersi e, magari, tra una nuotata e l’altra, riflettere: questo almeno se di mezzo non ci si mettesse un grosso squalo testardissimo, che non ci sta ad arrendersi e con pazienza decide di girarti intorno aspettando che lo scoglio su cui hai trovato riparo venga coperto dall’imminente alta marea e ti rimetta alle sue fauci.

Perché a volte la vita fa anche un po’ così: quando ti trovi in una fase di transizione, confuso, in alto mare con le scelte, anziché tirarti un salvagente e venirti a salvare, preferisce afferrarti per la gamba e trascinarti a fondo; lo fa per vedere se hai ancora voglia di restare a galla, se l’istinto di lottare ancora respira e se il suo respiro è più in forma di quello della sua controparte, la resa. Metaforicamente infatti è un po’ questa la lettura che c’è sotto a “Paradise Beach: Dentro L’Incubo”, magari, un tantino meno stirata e sistemata rispetto a come ve l’abbiamo riassunta noi, ma comunque piuttosto ordinata per non sfigurare accanto al vestito principale del survival-movie spettacolare su cui il regista Jaume Collet-Serra, legittimamente, tende a voler porre l’accento. Non si perde troppo in fronzoli infatti la pellicola, servendosi di pochi minuti per mettere i puntini sulle “i” e di altrettanto pochi per giungere al dunque e cominciare la sua discesa al cardiopalma fatta di sangue, corse contro il tempo, false speranze e prese di coscienza drastiche quanto sopra ai confini della realtà.
Questo, chiaramente, dopo aver messo abbondantemente in risalto le curve e la sensualità di una Lively su cui, ad essere onesti, esteticamente parlando, ci sarebbe ben poco da dire e molto da osservare.

blake livelyDel resto, è inutile girarci intorno, l’influenza dei b-movie ultimi sugli squali, questo “Paradise Beach: Dentro L’Incubo” l’ha sentita tutta, l’ha assorbita e l’ha fatta sua. I momenti in cui l’action di grana grossa sale in primo piano e si lascia andare a scene ironiche, assurde, capaci di strappare risate, ma non per questo di rinunciare all’ansia di fondo, ci sono, ma tuttavia non riescono a buttare giù un intelaiatura che funziona egregiamente e non mostra mai il fianco per potersi ammaccare. E’ solidissimo il film di Collet-Serra, determinato, scorre via veloce e ti prende allo stomaco come farebbe uno squalo in acqua. Non ti permette mai di mollare la presa, lasciando che l’agitazione ti divori e che il panico incalzi. Usa ogni arma a sua disposizione il regista, che sia questa lecita o meno: dalle inquadrature larghe a quelle strette, dalla musica sviante, ai colpi bassi, fino alle immagini iper-realistiche di quelle Go-Pro, tanto di moda, che oggi permettono di filmare, in diretta, in prima persona, ogni tipo di situazione estrema.

Preso per quello che è, allora, questo ennesimo film sugli squali assassini non può che soddisfare appieno i palati dei suoi appassionati. Certo, chi si aspettava di vedere l’erede de “Lo Squalo” di Steven Spielberg, forse, si accorgerà presto di aver sbagliato sala, ma con molte probabilità è possibile che, anziché, alzarsi ed uscire insoddisfatto, deciderà di restare lo stesso. Scoprendo suo malgrado che, qualche volta, anche un prodotto di serie-b, se curato con una mentalità da serie-a, può avere il diritto di dire la sua e di dirla persino chiara e forte.

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