In principio afferma di essere un thriller il suo “Elle”: con Isabelle Huppert violentata nella prima scena che, senza l’aiuto della polizia - con la quale ha un conto in sospeso di brutte esperienze - decide di indagare sul suo aggressore - che nel frattempo continua a stalkerarla - per conto proprio, armandosi di spray e accette portatili in casa e incaricando un dipendente del suo ufficio di investigare illegalmente nei computer. Ci descrive una donna forte e risoluta Verhoeven, costantemente circondata da uomini che ama tenere sotto scacco, seducendoli all'occorrenza, quando ha voglia di soddisfare un capriccio, o provocandoli gratuitamente, se l’intento è quello di farli adirare. Un profilo assai ingarbugliato e perverso, nel quale certamente ha influito lo shock di un padre assassino, rinchiuso in carcere e arrestato davanti ai suoi occhi all'età di dieci anni, e una madre più attenta a mantenere sana la sua giovinezza con toy-boy e botox che a prendersi cura di lei a tempo debito. Tutti addendi che, inevitabilmente, vanno ad influire in ogni gesto e in ogni dettaglio di una storia dalle tinte ombrose e torbide, una storia dove ad ogni personaggio è concesso il lusso di dar voce al suo istinto e alle sue depravazioni, esplorando senza mezzi termini quel lato dark che ci appartiene un po’ a tutti e che nella maggior parte dei casi soffochiamo, accarezzandolo solo lontano da sguardi indiscreti.

Con cinismo, lucidità e una manciata di ironia (nera, grottesca) cosparsa omogeneamente, Verhoeven firma, così, il suo ritorno sul grande schermo come meglio non avrebbe potuto, tirando fuori il massimo e qualcosa in più da un copione potenzialmente pieno di rischi e di trappole. In “Elle” c’è il suo stile, le sue ossessioni cinematografiche, i suoi vizi, le immoralità, ma anche uno schiaffo sincero alle nostre guance che ci ricorda lo scarto esistente che c'è tra ciò che siamo davvero e chi fingiamo di essere.
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