L'Alba del Pianeta delle Scimmie - La Recensione

Era ancora il 1968 quando Franklin J. Schaffner diresse il primo “Il Pianeta delle Scimmie”, al quale poi seguirono gli altri quattro titoli (“L'Altra Faccia del Pianeta delle Scimmie”, “Fuga dal Pianeta delle Scimmie”, “1999 - Conquista della Terra” e “Anno 2670 - Ultimo atto”) che andarono a chiudere, nel 1973, una saga durata ben cinque film. Nel 2001 si tentò per la prima volta di effettuarne un reboot, affidando le sue sorti alla regia visionaria di Tim Burton, ma “The Planet of the Apes” riscosse solamente molte critiche e scarsi risultati. Adesso, passati dieci anni, a ritentare l’esperimento ci ha provato il regista Rupert Wyatt il quale, affidandosi alla sceneggiatura scritta da Rick Jaffa e Amanda Silver, col suo “L’Alba del Pianeta delle Scimmie” ha deciso di mettere in scena una storia interessata ad essere contemporaneamente sia prequel che reboot.

Al centro di tutto l’uomo e la sua presunzione. La ricerca spasmodica dello scienziato Will Rodman (James Franco), impegnato a voler trovare a tutti i costi una cura efficace per la malattia dell’Alzheimer, porta alla creazione di una medicina in grado di riuscire ad ampliare spropositatamente l’intelligenza delle sue cavie. Il fallimento diventa in seguito minaccia quando queste prodigiose scimmie intelligenti decidono di allearsi all'unanimità per riuscire a sfuggire alla prigionia e alle sperimentazioni alle quali sono costrette a sottostare. Comincia allora uno scontro con gli esseri umani che svela immediatamente la netta differenza creatasi tra l'uomo e la scimmia, la loro lotta alla libertà diventa un messaggio contro la continua ambizione di miglioramento dell’essere umano il quale, troppo attirato dalla possibilità di voler cambiare il suo stesso concetto, non intende accettare la possibilità che alcune cose, purtroppo, non possono essere cambiate affatto. Questa ostinazione gioca quindi un effetto contrario a quello desiderato, causando un involuzione che porta lo scettro di essere più evoluto in mano ai primati e generando dei risvolti negativi inclini a diventare ancor più pesanti grazie all'inaspettato secondo finale del film.

Ma la novità più grande di questa operazione però, arriva dalla tecnica con cui si è deciso di rappresentare sul grande schermo lo scimpanzé protagonista Caesar (Cesare nella versione italiana). Come fu per il Gollum de “Il Signore degli Anelli” e per King Kong dell’omonimo film (entrambi diretti da Peter Jackson) anche stavolta per impersonare la creatura protagonista è stata utilizzata la tecnica del Motion Capture. Ad offrire corpo e interpretazione alla causa, l’espertissimo e "invisibile" Andy Serkis. L’attore inglese, dopo aver impersonato sia Gollum che Kong, appare ormai come una garanzia quando si tratta di dover prestare umanità ad esseri virtuali realizzati digitalmente e guardando il risultato raggiunto con Caesar, è davvero impressionante constatare come uno scimpanzé riesca a diventare, a conti fatti, il miglior attore in senso assoluto della pellicola, sia per interpretazione che per emozioni trasmesse.

Con grande intelligenza, dunque, Wyatt firma un blockbuster di buonissimo livello che per una prima ora, addirittura, sembra voler ambire anche a qualcosina di più alto. La seconda parte di pura azione però ridefinisce distintamente le sue vere intenzioni, annullando di conseguenza quelle che erano state le fuorvianti sensazioni iniziali. Ciò rettifica leggermente il valore dell’intero progetto ma senza impedirgli di uscire comunque a testa alta da un’operazione indubbiamente ben riuscita.

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