Con “Inglourious Basterds” la carriera di Quentin Tarantino aveva intrapreso una virata davvero inaspettata. La sua genialità, la sua conoscenza cinematografica, e tutto quello che fino a quel momento era stato il suo mondo, passavano dall'essere parte di una realtà fittizia al diventare valore aggiunto di contesti storici realmente esistiti. Il tutto attraverso una visione intenta a prendere le pagine più nere della Storia, rivisitarle e infine falsarle secondo canoni moralmente più giusti.
“Django Unchined” non è altro che un’estensione di quel binario (si parla già di trilogia con un terzo film in cantiere), un proseguimento che per onorare il genere spaghetti-western guarda molto più indietro e, dalla seconda guerra mondiale, balza a due anni prima dell’inizio della guerra civile americana datata 1860, ritrovandosi, così, in pieno periodo di schiavismo.
La (non) novità è che Tarantino non finisce mai di stupire, e con questo suo ultimo lavoro si lascia andare a delle piccole variazioni stilistiche che gettano nuovi sguardi sul suo cinema e spiazzano notevolmente chi credeva di essersi abituato a conoscerlo. Per la prima volta, infatti, il regista sceglie di utilizzare la violenza senza la volontà di procurare un godimento nei confronti dello spettatore e, al contrario, riesce quasi a disturbarlo quando a subirla non sono più coloro che la meritano bensì delle povere vittime indifese e innocenti. Sebbene il regista di “Pulp Fiction” e “Kill Bill” non rinunci alla sua consueta ironia, in “Django Unchained” assume comunque delle vesti più serie, trattando l’argomento della schiavitù in maniera ancor più sensibilizzante di quanto non abbia fatto con lo sterminio degli ebrei e lasciandosi coinvolgere dallo sguardo del suo protagonista, vincolato ad accettare un cammino difficile quanto amaro pur di mantener viva la fioca speranza di vincere la sua complessa battaglia. Perché dietro la storia di ribellione contro lo sfruttamento di una razza – e questa è un’altra sorpresa - c’è prima di tutto una grandissima storia d’amore, il motore essenziale che spinge il Django di Jamie Foxx ad armarsi di immenso coraggio ed affrontare - sostenuto solo dal suo mentore - l’ingiustizia contro il suo popolo che impedisce a lui di beneficiare di un matrimonio al quale non ha voluto rinunciare.
Del lavoro di Sergio Corbucci rimane allora la tematica del razzismo (esposta in forma più allargata), la suddivisione narrativa in due blocchi (il primo con Django in aiuto al Dott. Schultz e il secondo con quest’ultimo a ricambiare il favore) e la simpatica partecipazione di Franco Nero che si concede ad un brevissimo scambio di battute con il suo erede. Per il resto, la pellicola viaggia priva di qualunque appiglio e si scatena con dialoghi brillanti e situazioni beffarde, figlia di un ottima sceneggiatura e di ottimi personaggi (Christoph Waltz in prima linea). L’unico istante in cui sembra perdere la bussola arriva in un finale che il regista ha dichiarato di aver riscritto tre volte: qui i piccoli indugi sono palpabili - specie nel momento in cui Tarantino da sfogo ad un suo cameo - ma per fortuna non ci vuole molto per recuperare la bussola e riprendere in mano le redini.
Contando “Kill Bill” un volume unico, e tralasciando quelle che sono state le opere dirette insieme ad altri registi, “Django Unchained” viene calcolato come il settimo film di Quentin Tarantino. Spalancando uno sguardo ampio sulla sua carriera, è impressionante vedere quanto sia impossibile riuscire a trovare un titolo non riuscito, o tuttavia contestabile per un qualunque motivo. In sostanza, ci troviamo di fronte ad un talento unico, un fruitore di cinema che sa eseguire come pochi, o addirittura come nessuno, il suo mestiere, un maestro del (e di) cinema per il quale nulla appare impossibile. In parole povere, secondo chi scrive, Quentin Tarantino è un Dio assoluto.
Trailer:
“Django Unchined” non è altro che un’estensione di quel binario (si parla già di trilogia con un terzo film in cantiere), un proseguimento che per onorare il genere spaghetti-western guarda molto più indietro e, dalla seconda guerra mondiale, balza a due anni prima dell’inizio della guerra civile americana datata 1860, ritrovandosi, così, in pieno periodo di schiavismo.
La (non) novità è che Tarantino non finisce mai di stupire, e con questo suo ultimo lavoro si lascia andare a delle piccole variazioni stilistiche che gettano nuovi sguardi sul suo cinema e spiazzano notevolmente chi credeva di essersi abituato a conoscerlo. Per la prima volta, infatti, il regista sceglie di utilizzare la violenza senza la volontà di procurare un godimento nei confronti dello spettatore e, al contrario, riesce quasi a disturbarlo quando a subirla non sono più coloro che la meritano bensì delle povere vittime indifese e innocenti. Sebbene il regista di “Pulp Fiction” e “Kill Bill” non rinunci alla sua consueta ironia, in “Django Unchained” assume comunque delle vesti più serie, trattando l’argomento della schiavitù in maniera ancor più sensibilizzante di quanto non abbia fatto con lo sterminio degli ebrei e lasciandosi coinvolgere dallo sguardo del suo protagonista, vincolato ad accettare un cammino difficile quanto amaro pur di mantener viva la fioca speranza di vincere la sua complessa battaglia. Perché dietro la storia di ribellione contro lo sfruttamento di una razza – e questa è un’altra sorpresa - c’è prima di tutto una grandissima storia d’amore, il motore essenziale che spinge il Django di Jamie Foxx ad armarsi di immenso coraggio ed affrontare - sostenuto solo dal suo mentore - l’ingiustizia contro il suo popolo che impedisce a lui di beneficiare di un matrimonio al quale non ha voluto rinunciare.
Del lavoro di Sergio Corbucci rimane allora la tematica del razzismo (esposta in forma più allargata), la suddivisione narrativa in due blocchi (il primo con Django in aiuto al Dott. Schultz e il secondo con quest’ultimo a ricambiare il favore) e la simpatica partecipazione di Franco Nero che si concede ad un brevissimo scambio di battute con il suo erede. Per il resto, la pellicola viaggia priva di qualunque appiglio e si scatena con dialoghi brillanti e situazioni beffarde, figlia di un ottima sceneggiatura e di ottimi personaggi (Christoph Waltz in prima linea). L’unico istante in cui sembra perdere la bussola arriva in un finale che il regista ha dichiarato di aver riscritto tre volte: qui i piccoli indugi sono palpabili - specie nel momento in cui Tarantino da sfogo ad un suo cameo - ma per fortuna non ci vuole molto per recuperare la bussola e riprendere in mano le redini.
Contando “Kill Bill” un volume unico, e tralasciando quelle che sono state le opere dirette insieme ad altri registi, “Django Unchained” viene calcolato come il settimo film di Quentin Tarantino. Spalancando uno sguardo ampio sulla sua carriera, è impressionante vedere quanto sia impossibile riuscire a trovare un titolo non riuscito, o tuttavia contestabile per un qualunque motivo. In sostanza, ci troviamo di fronte ad un talento unico, un fruitore di cinema che sa eseguire come pochi, o addirittura come nessuno, il suo mestiere, un maestro del (e di) cinema per il quale nulla appare impossibile. In parole povere, secondo chi scrive, Quentin Tarantino è un Dio assoluto.
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