Oldboy - La Recensione

La versione originale di "Oldboy", quella del 2003, quella coreana, quella osannata da Quentin Tarantino, è a tutti gli effetti un capolavoro. E i capolavori, lo dice la parola stessa, essendo lavori capi, difficilmente possono essere superati, difficilmente possono avere margini di miglioramento, e di sicuro quando si prova a innalzare ulteriormente qualcosa che di per sé è già perfetto il rischio del fallimento è matematicamente più alto rispetto a quello del successo. Quindi la domanda sorgeva piuttosto spontanea: che bisogno c'era di fare un remake americano di “Oldboy”?

Apparentemente nessuno.
A mettere un po' di acqua sul fuoco e a placare gli animi ci ha pensato però il nome di Spike Lee e il suo coinvolgimento nel progetto. Lui, regista di esperienza, intelligente, con un grosso sbaglio alle spalle non all'altezza del suo nome da farsi perdonare: il "Miracolo a Sant'Anna" di qualche anno fa.
Insomma, le strade erano due: o il grande Spike era finito al centro di una morsa e stava per commettere un secondo passo falso che gli avrebbe fatto perdere l'aggettivo grande prima del suo nome, oppure il riscatto era lì, dietro l'angolo, pronto a spazzare via il peccato.
E, a dir la verità, il pensiero che il remake di "Oldboy" fosse solo un grande scherzo, una montatura, era anche passato per l'anticamera del cervello di qualcuno, il dubbio che recuperare lo script di Park Chan-wook fosse solo il pretesto per andare a rimetterci mano e deviarlo completamente in tutt'altro luogo, un po' come ha fatto sapientemente di recente Fede Alvarez con "La Casa" di Sam Raimi, poteva essere un'idea stuzzicante che avrebbe allo stesso tempo spiazzato e persino sollevato i palati più cinici e non.

Tuttavia i castelli in aria e le fantasie sono durati ben poco, il tempo di mettere gli occhi sullo schermo e di verificare quanto la potenza e l’audacia dell’industria cinematografica americana sia diventata talmente autorevole da potersi permettere di compiere, consapevole, dei salti nel buio con morte certa, senza preoccuparsi neppure delle conseguenze degli stessi. Rispetto all'originale infatti questo nuovo “Oldboy” apporta solo dei leggerissimi cambiamenti, e nessuno di essi volto a intaccare la struttura fondamentale della trama, si tratta di cambiamenti legati a elementi di secondo piano, equivalenti a piccole sfumature, inutili e di prassi, abitudinari quando si parla di rifacimenti. Chiaramente l’effetto è il peggiore che ci si potesse aspettare, quello di un prodotto analogo ma nettamente inferiore e che, essendo venuto dopo, non è in grado di giustificare minimamente il suo intervento sulla scena. A pagarne le spese maggiori, come prevedibile, allora è proprio Spike Lee, ingoiato dal sistema e sempre più orfano dell’esplosività che una volta era suo delizioso e inconfondibile marchio. La sensazione di un attaccamento al progetto da parte sua è praticamente minima se non assente, la concessione di qualche sprazzo d’appariscenza visiva è piacevole e apprezzabile ma la mancanza di quell'anima che sapeva farsi sentire e colpire anche duro pare essere finita in tasche ormai chiuse e blindate.

Pur sforzandoci mentalmente a livelli estremi e inauditi perciò un vero senso a questa operazione di remake è davvero impossibile da trovare, Josh Brolin fornisce una delle sue migliori interpretazioni, è vero, ma il costo da pagare è troppo elevato se esaminiamo il numero delle vittime. Prosciugata di ogni goccia della poetica meravigliosa contenuta nell'originale, quella americana è una versione di ”Oldboy” altamente fruibile ma non all'altezza, a meno che non ci siano persone che preferiscano il buono all'eccellente.

Trailer:

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