Il nome di Peter Segal nell'operazione doveva far intuire immediatamente che "Il Grande Match" fosse qualcosa di più (o di meno) di un suggestivo scenario che avrebbe messo nuovamente sul ring, a distanza di molti anni, i miti di Rocky Balboa e di Jake LaMotta. Questo non solo perché ufficialmente Sylvester Stallone e Robert De Niro venivano chiamati a rappresentare due pugili che nulla avevano a che fare con quelli interpretati a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, ma perché sfogliando attentamente la filmografia del regista la destinazione finale della pellicola appariva unica e ben illuminata.
Artefice di commedie demenziali per antonomasia infatti Segal in questo caso pur frenando un tantino la sua vena non cambia registro, si sostituisce perfettamente allo Stallone-regista più recente e dirige uno scontro tra ex-stelle del pugilato dai toni semiseri che ha pochissimo interesse a parlar direttamente di allenamenti e guantoni e enorme voglia di scherzare e autoironizzare su età e passato dei due protagonisti, tessendo contemporaneamente sottotrame di riscatto e di romanticismo e alleggerendo il tutto con battute ritmate, affilate e ficcanti. Resa dei conti e duelli all'ultimo gancio sono rimandati quindi a data da destinarsi, poco lo spazio riservato a loro, in primo piano salgono i conti in sospeso accumulati durante una vita da sistemare e da raddrizzare, che ha saputo togliere assai maggiormente di quanto invece ha saputo restituire. In questo equilibrio inaspettato e disteso "Il Grande Match" allora costruisce le mosse vincenti per imporsi sia ai scettici che agli entusiasti, usa l'arma della risata con parsimonia e ottimi tempi e suggerisce senza troppe preoccupazioni una tendenza al lieto fine intrattenendo con gusto, acutamente e sfruttando con determinazione la presenza sullo schermo di due personalità pesanti.
Ecco perciò come la manovra che inizialmente aveva assunto un clamore piuttosto eccessivo - per via di un sottotesto assolutamente non presente all'interno della sceneggiatura ma decisamente ingombrante nell'immaginario dello spettatore - si svela meno sfrontata ma anche meno ridicola del previsto, venendo assorbita con il piacere di una rimpatriata tra grandi vecchi, ancora in accettabile forma (Alan Arkin è irresistibile) e consapevoli di non far più parte della linea verde che al contrario va trasferita senza stendere eccessivi drammi.
Ed è così che “Il Grande Match” zampilla, gonfiato a chiacchiere oltre misura per esser bucato velocemente, e con cura, da uno spillo che comodo ne riduce volume, rancore e dolore a rilento. Probabilmente l’opera più seria di Peter Segal, che al corrente di non avere tra le sue mani stavolta né Adam Sandler e né Steve Carrell si abbassa al talento meno comico ma non per questo più scadente di un cast decisamente affiatato e di un altro livello.
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