Lo Sguardo di Satana: Carrie - La Recensione

Tempo fa, pur contro il parere degli accaniti conservatori, avevamo elogiato il lavoro compiuto dal giovane regista uruguayano Fede Alvarez con il remake "La Casa", in particolar modo avevamo gradito la maniera e il rispetto con cui era riuscito a riproporre un cult della storia dell'horror sfuggendo a paragoni e a critiche fragorose, quelle che nascono imprescindibilmente quando si tende ad avvicinare la riproposizione di un prodotto esistente più a una copia carbone sbiadita che ad un nuovo spunto stimolante.

Un tipo di iniziativa molto simile a quella viene riproposta oggi dai sceneggiatori Roberto Aguirre-Sacasa e Lawrence D.Cohen e dalla regista Kimberly Peirce, che riportano in vita la splendida pellicola diretta da Brian De Palma nel 1976 tratta dal romanzo omonimo di Stephen King, ma tuttavia gli esiti raggiunti dal remake di "Carrie: Lo Sguardo di Satana" non sono neppure lontanamente paragonabili a quelli conquistati da Alvarez.
Anziché una versione rimodernata infatti la sensazione è quella di trovarsi alle prese con un fac-simile scarico e svogliato, inadeguato a ricreare le atmosfere rigide e tese della pellicola di circa quarant'anni fa e timoroso di osare e di spingersi al di là di ciò che è stato mostrato ed esposto dai predecessori. Sostanzialmente uguale e identico, ma allo stesso tempo non all'altezza, "Lo Sguardo di Satana: Carrie" genera allora esclusivamente solo dubbi e quesiti, la maggior parte legati all'inutilità di un progetto al quale mancano ampia visione e grande dinamismo, la versione della Peirce, va detto, ha uno stampo tenuemente più positivo rispetto a quella firmata da Brian De Palma e solleva Carrie dal male assoluto per avvicinarla alla sezione relativa ai freak attualmente decisamente in voga, spargendo alcune briciole di speranza che nell'originale erano assolutamente inesistenti.

Gli estremi (e i doveri) per fare qualcosa di più incisivo però c’erano, l'epoca attuale forniva soluzioni differenti e nette per sviluppare la trama, anche al costo di non rispettare per filo e per segno il racconto originale tradendolo in favore di una causa più importante. Invece la Peirce tentenna, pare accorgersi della possibile posizione di vantaggio ma non prende coraggio lasciandosi sopraffare dalla paura di uscire troppo fuori dai binari, opta per la cauta opzione di rimanerci incollata sopra e si permette il piccolo lusso di fare uscire ogni tanto la testolina fuori dal finestrino.

L'aria che arriva è comunque scarsa per ossigenare una pellicola che aveva quantomeno il compito, ampiamente fallito, di disturbare a intermittenza lo spettatore, Chloë Grace Moretz non sfigura nel personaggio di Carrie pur non raggiungendo mai i livelli mostruosi che furono di Sissy Spacek mentre Julianne Moore - colpa di una scrittura ridotta dedicata al suo ruolo - perde di netto la gara con Piper Laurie. Ma la sconfitta maggiore è senza dubbio da attribuire a colui che ha pensato di mettere in piedi il remake di un capolavoro ancora attualissimo con una faciloneria a dir poco insolente. Ebbene, per lui si che ci vorrebbe un trattamento da ballo di fine anno con telecinesi.

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