Apes Revolution: Il Pianeta Delle Scimmie - La Recensione

La scelta di affidare "Apes Revolution: Il Pianeta Delle Scimmie" a Matt Reeves si è rivelata - col senno di poi - sapiente ed oculata. Esploso con "Cloverfield" - mockumentary geniale e apripista di innumerevoli analoghi esperimenti - al regista infatti viene fornita nuovamente l'occasione di tornare a lavorare su quello che pare esser vicinissimo al suo terreno d'appartenenza, ovvero il finto documentario: fotografato non più sotto la veste di found footage ma attraverso una confezione standardizzata, incoraggiata da una computer grafica sempre più strepitosa e capace di fare apparire l'intero contesto visivo quantomai simile alla realtà.

Non a caso questo secondo capitolo si apre esattamente come non ti aspetti, contro corrente considerando il suo predecessore. Ad essere protagoniste assolute stavolta sono proprio le scimmie: libere dai test e dai laboratori, autonome a vivere nel bosco in cui si sono insidiate (e che giustamente chiamano casa) e consapevoli di aver raggiunto uno sviluppo semi-definitivo che gli permette di dominare e di non esser più dominate. Gli esseri umani, dal canto loro, vivono esiliati e in minoranza, dispersi in varie zone, in gran parte estinti dal virus che loro stessi hanno creato, che li ha trascinati a vivere in maniera disagiata e impaurita, ma con la speranza di poter ricostruire la loro posizione e il loro stato. L'occhio di Reeves allora non può che andare a ignorare la vita post-apocalittica dell'uomo (che è stata già raccontata in migliaia di modi) e soffermarsi anima e cuore sugli usi e i costumi dei primati, mostrando il loro modo di vivere, la loro collettività, le loro regole e mettendone a fuoco la struttura politica che vede Cesare governare i suoi simili come rispettato leader e promotore della libertà.

Inutile quindi fare accenni alla rivoluzione del titolo come a una battaglia - inevitabile - a cui la pellicola, per forza di cose, dovrà far fronte. Inutile perché non è questo il punto d'interesse maggiore di "Apes Revolution: Il Pianeta Delle Scimmie", non lo è per noi, né tantomeno per Reeves, che si sofferma soprattutto sulla parte antropologica della sceneggiatura, esaminando la gestione e i progressi di una civiltà nuova e ponendola a confronto con l'altra preesistente, in fase di estinzione (la nostra). La sua analisi, lo porta lentamente a sostenere la desolante riflessione che ogni civiltà interessata alla sopravvivenza, dentro di sé, per natura tende a sviluppare una sete di potere pericolosissima, a coltivare il seme della guerra e della distruzione, scotto necessario per il raggiungimento dello scopo. Una teoria che nel totale pessimismo che la circonda tralascia uno spiraglio di speranza solo se consideriamo l'influenza dell'uomo sulla scimmia stessa, che, abituata a rubare con gli occhi, una volta indipendente tende a ragionare e ad agire precisamente come esso. Un apparente cinismo che, tuttavia, finisce per trovare un minimo di redenzione attraverso il giro di boa conclusivo a tinte abbastanza coraggiose - seppur non quanto ci si potesse aspettare - in cui ancora una volta per l'uomo c'è il duro destino di uscire vittima e carnefice delle sue stesse azioni.

La linfa vitale con cui la saga de "Il Pianeta Delle Scimmie" ha deciso di rigenerarsi però, continua a dare i suoi frutti positivi e ad affermarsi come prodotto per niente scontato o incline ai bassi standard a cui i blockbuster americani ci hanno abituato. Matt Reeves, dunque, compie un'altro mezzo passo avanti, che dopo il remake ben fatto di "Lasciami Entrare" gli fa formare un passo completo.
Ecco, a lui magari potremmo consigliare di aumentare leggermente l'andatura, di sganciarsi dall'industria in cui sembra essersi un po' incastrato e tornare a comporre quei stessi acuti che un tempo hanno contribuito a incanalare la sua ascesa.

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