Lenta, compassata, riservata nei contenuti e prosciugata di dialoghi. La terza prova da regista di Oren Moverman è dedicata ai senza tetto di New York, alla loro vita, alle loro condizioni (fisiche e mentali). Ne percorre i ricordi, i rimpianti e soprattutto le difficoltà, ma nel farlo mette la pazienza dello spettatore a durissima prova.
Pur potendo vantare del peso di un Richard Gere intenso, ma appena credibile, e di uno spaccato vivido e reale - esistente nei Stati Uniti - a cui difficilmente si darà eco altrove, "Time Out Of Mind" sceglie, per farsi ascoltare, una cadenza di passo ai limiti della sopportabilità, complicando la vita dello spettatore e mettendone a rischio una resistenza che quasi sicuramente dovrà vedersela con la noia e con la monotonia della ripetizione. Un peccato, insomma, visto che altre vie da percorrere per arricchire il quadro e velocizzare la trama erano state sia convocate che addirittura sfiorate in varie occasioni. Si sarebbe potuto ampliare, per esempio, il background di un Gere barbone chissà come, con una moglie in passato deceduta di cancro, una vita da pseudo-gigolò e una figlia che non ne vuole saperne di far da genitore al proprio padre sfollato ed ex-ubriaco. Della famiglia che era, di come tutto è finito e delle motivazioni che hanno portato alla situazione esaminata però Moverman non ne discute mai, ci gira intorno ogni tanto, certo, ma resta immerso fino ai talloni nella burocrazia e nelle regole di un mondo sconosciuto che vuole portare alla luce trapanando nel dolore del suo protagonista.
Pur potendo vantare del peso di un Richard Gere intenso, ma appena credibile, e di uno spaccato vivido e reale - esistente nei Stati Uniti - a cui difficilmente si darà eco altrove, "Time Out Of Mind" sceglie, per farsi ascoltare, una cadenza di passo ai limiti della sopportabilità, complicando la vita dello spettatore e mettendone a rischio una resistenza che quasi sicuramente dovrà vedersela con la noia e con la monotonia della ripetizione. Un peccato, insomma, visto che altre vie da percorrere per arricchire il quadro e velocizzare la trama erano state sia convocate che addirittura sfiorate in varie occasioni. Si sarebbe potuto ampliare, per esempio, il background di un Gere barbone chissà come, con una moglie in passato deceduta di cancro, una vita da pseudo-gigolò e una figlia che non ne vuole saperne di far da genitore al proprio padre sfollato ed ex-ubriaco. Della famiglia che era, di come tutto è finito e delle motivazioni che hanno portato alla situazione esaminata però Moverman non ne discute mai, ci gira intorno ogni tanto, certo, ma resta immerso fino ai talloni nella burocrazia e nelle regole di un mondo sconosciuto che vuole portare alla luce trapanando nel dolore del suo protagonista.
Mondo che gira intorno a certificati di nascita necessari per chiedere lavoro, domande a cui rispondere per avere un letto, regole a cui sottostare - non sempre corrette o rispettabili - con cui si è costretti a scendere a patti se non si hanno alternative e si ha intenzione di sopravvivere. Ovvero quello con cui deve vedersela ogni giorno un comune homeless di New York, mentre in parallelo gestisce la sua battaglia per tenere testa al freddo, al sonno e alla fame, ripetendo per l'ennesima volta magari a qualcuno, il non possedimento di un certificato di nascita tassativo, di cui ingenuamente è persino messa in discussione l'utilità: considerando che la presenza stessa della persona che chiede assistenza sia un evidente testimonianza della sua nascita.
Ma dal lenzuolo lunghissimo che "Time Out Of Mind" stende per farci entrare nella vita del suo protagonista, nelle sue vicissitudini e, solo infine, nel suo privato, non si riesce mai a lasciarsi avvolgere con accurata partecipazione e regolare mordente. Colpa di un amalgama eterogenea, miscelata con una flemma insopportabile, che quando, alle battute finali, prova mettersi in moto e accelerare dimostra di essere ormai atrofizzata e irrecuperabile.
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