The Rover - La Recensione

Dall'affollamento  familiare di "Animal Kingdom" alla solitudine semi-deserta di "The Rover".
Riparte da qui il regista David Michôd, da un capovolgimento contrastante e post-apocalittico che però non cessa di mantenere alcuni legami con gli argomenti a lui più cari, innalzando quelle capacità registiche di cui certamente ha dimostrato di saper esser portatore sano.

Perché "The Rover" è innanzitutto un magnetico lavoro di scenografia e fotografia, diretto con caparbietà da chi il cinema sa cosa significa e come manovrarlo: la sequenza di apertura che, nel silenzio più totale, si trasforma repentinamente in un inseguimento all'ultimo respiro, privo di indicazioni, ma adrenalinico, ne è una conferma netta ed efficace, con un Guy Pierce silenziosissimo e brutale che senza il bisogno di troppe battute riesce perfettamente a trasmettere quel senso di male interiore con cui il suo personaggio è costretto a vivere e a convivere. Ci troviamo a seguito del collasso economico globale infatti, in Australia, in un mondo in cui la giustizia è ridotta ai minimi termini e la legge del più violento vige come equilibrio circostante. Il denaro è limitato, e viverne senza è un abitudine, ma ciò tuttavia non limita il predominio della malvivenza e l'estinzione di quella umanità che una volta serviva a distinguere l'uomo dagli altri animali. Non c'è alcun eroe a fare da scudo, né tantomeno l'ombra di un personaggio positivo, solo la cattiveria e la rabbia di chi cerca di sopravvivere (o sopportare la sopravvivenza) come meglio sa fare a ciò che resta, senza nemmeno avere più così tanta paura di morire e chiudere i battenti. Lo dice chiaramente anche Guy Pierce in una delle poche scene in cui gli è consentito aprire la bocca: non c'è più nulla che deve accadere, è già successo tutto. Una chiusura priva di speranza che non lascia spiragli di redenzione a chiunque si trascini ancora sui terreni aridi che disinteressatamente lo ospitano.

L'atmosfera western desertica e taciturna diventa allora per Michôd carattere fondamentale per infondere alla sua pellicola quei tratti sconfortanti e sfiducianti a cui mira, un panorama capace di inviare alternativamente fascino e malessere, a seconda delle pause che l'opera si concede per respirare e riprendere fiato. Perché i tempi di azione sono importantissimi in "The Rover", gestire il fiato è basilare per costruire la tensione e spezzarla all'occorrenza, in quelle situazioni in cui il bisogno diventa poter ampliare le informazioni e dimensionare i personaggi. E con la sua tecnica da perfezionista Michôd è pressoché impeccabile a lasciare che questi sbalzi non prendano il sopravvento, a mantenere costante il controllo su un meccanismo che poteva sfuggirgli di mano e che invece resta roteante sul suo palmo attento alle rigide indicazioni.

Per questo l'universo da lui costruito e in cui fa muovere i suoi personaggi, nonostante la dose surreale presente, che potrebbe mettere in discussione qualche tipo di comportamento o gesto, a noi risulta sempre credibile e coinvolgente: un luogo malvagio, dove non c'è più né vittoria e né riscatto, dove la pace è rintracciabile esclusivamente con la morte e dove ad avere la meglio è solamente il nulla. Solo lui e nessun'altro.

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