Unbroken - La Recensione

La seconda prova registica di Angelina Jolie passa per l'epica battaglia tra la vita e la morte che l'atleta e militare americano (di origine italiana) Louis Zamperini ha affrontato nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Quando, a seguito di un incidente aereo, avvenuto in una missione di recupero, rimase naufrago nell'oceano Pacifico per quarantasette giorni, prima di essere ritrovato da una nave giapponese e restare schiavo per circa due anni (fino alla fine della guerra) in un campo di prigionia.

Con Roger Deakins alla fotografia e i fratelli Coen ad arricchire l'esecuzione di uno script per il quale timbrano il cartellino anche i meno noti Richard LaGravenese e William Nicholson, la Jolie stavolta allora da l'impressione di voler fare sul serio. Il materiale a disposizione del resto non gli manca e l'avventura da raccontare di occasioni per mettere in piedi qualcosa di davvero interessante, ne offre decisamente a cascata. Peccato allora che "Unbroken" anziché mostrare saggezza autoriale ed estro creativo, come era lecito aspettarsi, sacrifichi ogni strada positiva per appoggiarsi alle istruzioni del classico manuale studentesco che insegna in pochi, semplicissimi passi come rendere qualsiasi copione maggiormente carico di leggenda, passione e magniloquenza. Opta per una narrazione con flashback, in cui specie all'inizio tende a guardare al passato del suo protagonista risaltandone origini e formazione, in uno spaccato fastidioso ed inutile che oltre a spezzare l'attenzione di un combattimento aereo, allunga il minutaggio della pellicola senza essere di alcuno aiuto alla sua drammatizzazione. Fortunatamente un moderato recupero avviene quando è il momento di lasciare la scena al naufragio e alla prigionia di Zamperini, due paragrafi che oltre ad avere a disposizione più carne da poter dare in pasto alla storia, sanno stimolare maggior tensione a prescindere, evitando di fare accartocciare su sé stessa una sceneggiatura di per sé già pesante e approssimativa.

Le risposte che ci si aspettavano dalla Jolie tuttavia mancano all'appello, o perlomeno mancano quelle che avrebbero dovuto dirci che l'attrice fosse all'altezza di cavarsela dietro la macchina da presa allo stesso modo di come, per una carriera, ha saputo fare davanti. La sua visione delle peripezie di Zamperini prende infatti una piega tutt'altro che prevedibile, nettamente distante ed estranea a qualsiasi prospettiva, ed esplicitamente rivolta a tirare in ballo la figura di Dio così come a cucire una rappresentazione di bene e male completamente personale: dove la cattiveria dell'uomo è sempre giustificata da qualcosa che non dipende solo da lui, ma da una serie di altri, ingestibili fattori per lo più casuali. Il pensiero di una donna - ma soprattutto di una mamma - un po' catechista e rassicurante, che pur di far valere il suo credo e la sua filosofia - laddove possibile - si prende la briga e l'arroganza di travalicare ogni paletto, spianando strade improbabili e poco accessibili.

Se vogliamo, a modo suo, quel pizzico di autorialità in cui speravamo, la Jolie quindi alla fine la trova pure, ma si tratta di quella peggiore, ovvero quella ricattatoria, colma di retorica e forzature, che anziché far uscire una personalità mette in evidenza esclusivamente una dottrina e una fede sperando di diffonderla su larga scala.
Peggiorando, se vogliamo, o mettendo in secondo piano, ogni discorso relativo ai buchi di sceneggiatura, scene poco comprensibili, frasi fatte e insostenibilità di una pellicola che in altre mani poteva dare frutti sicuramente meno amari.

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