Mia Madre - La Recensione

Come sottende l'aggettivo possessivo del titolo, "Mia Madre" per Nanni Moretti è un film molto intimo e personale, una pagina della sua vita (e del suo diario), importante come sofferta, scritta suo malgrado durante la fase di montaggio di "Habemus Papam" ed elaborata in qualcosa di enormemente prezioso nel tempo a venire.
Per la prima volta infatti Moretti, in preda alla devastazione emotiva, depone il suo scudo e la sua voce grossa per scrivere - assieme agli altri due collaboratori Francesco Piccolo e Valia Santella - una sceneggiatura in cui, raccontando gli ultimi giorni di vita della donna che lo ha messo al mondo, rivela sue fragilità e inadeguatezze, mostrandosi stanco di sopportare il peso di quella maschera intimidatoria e granitica indossata fino ad ora e alla ricerca della forza necessaria per sostenere il vuoto di una perdita, per lui, ma come per chiunque altro, così grande e dolorosa.

Procedendo in linea con i suoi ultimi due lavori, in questo più che mai, decide allora di affidare il suo alter ego a qualcun altro, anzi di imprimere i suoi comportamenti, emotività e vezzi ad un personaggio femminile, ad un corpo in cui riflettersi sia meno agevole e diretto, sebbene l'imprinting resti comunque a tutti gli effetti evidentissimo e sincero.
Tramite l'incursione di Margherita Buy, "Mia Madre" quindi prende vita, con un Moretti che, denaturalizzando leggermente la frase detta spesso proprio dalla sua protagonista (e da lui) sul set, sceglie di starle accanto entrando in scena sporadicamente tramite il ruolo di fratello che ha voluto ritagliarsi. La sua pellicola però, al contrario di quanto si possa pensare o intendere, non ha assolutamente intenzione di ripercorrere inflessibilmente un cammino mortifero o luttuoso, anzi, partendo esattamente da quella che poteva essere la condizione del suo autore nel contesto reale e di vita vissuta, il proposito è esattamente quello di andarsi ad aprire, e scavarsi dentro, per provare ad alleggerirsi e a trasformare tutta quella sofferenza e quel malessere in un tributo dolce ed affettuoso, destinato a ricordare per sempre e in maniera semi-indelebile una donna amata e rispettata.

C'è molto altro infatti sotto la superficie di "Mia Madre", a partire dall'amore di un figlio (o figlia se intendiamo restare nella finzione) che trasuda oltre la rocciosità e l'inflessibilità della sua materia, arrivando in superficie per scuotere forte, fortissimo, quel mondo conosciuto e manovrato in maniera ostentata, ma ora improvvisamente complicato da sostenere e da sopportare. Una sensazione di disagio che Moretti deve aver provato in prima persona, inserita nella finzione con l'aiuto di una narrazione temporalmente naturale e fluida, che senza preavviso tuttavia inizia a tradire lo spettatore facendo spazio a sogni (o incubi) e flashback, non distinguibili tra loro, perciò destabilizzanti a livello di ordine e ricostruzione.
Una ricostruzione che più o meno ritorna fedele nella scena in cui le visite degli ex-studenti rimasti in contatto con la madre vengono a sapere della sua scomparsa rivelando a Margherita (che appunto è Moretti) particolari relativi alla sua vita di cui lei stessa non era al corrente, concedendo così al regista l'input per una conclusione da brividi, in cui viene amplificato il disegno di chi, nonostante fosse strettamente legato al fianco della sua famiglia, si concedeva il lusso di mantenere un pezzettino di segretezza e alcuni lati sconosciuti.

E' un'opera, dunque, che nasce con il dovere di viaggiare quasi priva di filtri e di coperture, "Mia Madre", dove i riferimenti, le accuse e i ragionamenti sono di facile intercettazione e con cui, di conseguenza, è facilissimo entrare in contatto e lasciarsi trasportare a qualsiasi stratificazione, ridendo e piangendo con uguale equilibrio e volontà. Già, perché nonostante possa sembrare strano, lo spazio per ridere - e ogni tanto persino di gusto - non manca affatto: merito di un John Turturro fantastico e in vena, chiamato ad interpretare una stella hollywoodiana sul set italiano di Margherita e a fungere da contraltare alle scene drammatiche della straordinaria e perfetta Giulia Lazzarini, madre allettata.

Riesce a schivare la trappola di qualsiasi retorica (dichiaratamente odiata) insomma, Moretti, trovando il grande potere di trasmettere a chiunque si trovi al cospetto del suo film la verità intrinseca di uno spaccato esistenziale, derivata dal privato e dal confidenziale ma lentamente alterata e riconducibile ad ognuno di noi.
Sarà per questo motivo, forse, che nel finale non c'è verso di contenere le lacrime, di rimanere affranti per una perdita che seppur non diretta e non conosciuta sentiamo essere grave e dura come se veramente ci riguardasse da vicino.
L'esplosione di una commozione non forzata e amorevole che testimonia l'assoluta riuscita di un'opera sentita e rischiosissima.

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