It Follows - La Recensione

Gli bastano i minimi termini a David Robert Mitchell per costruire l'horror memorabile: quello in grado di spaventare, di trasmettere ansia e favorire la tachicardia allo spettatore inerme.

Niente demoni o sieri farmaceutici sperimentali, tantomeno altri stereotipi classici tipo case maledette o cimiteri, a "It Follows" per fare il suo mestiere infatti basta una maledizione, una di quelle di cui non si conosce (e non si conoscerà) né derivazione né cura, ma solo il trucco per potersela scrollare di dosso e passarla ad un'altro soggetto, a cui magari sarà meglio dare direttive e consigliare di fare altrettanto. La pena è quella di essere perseguitati da persone conosciute e non, ancora in vita o meno, non visibili a qualcun'altro e aventi l'unico scopo di voler uccidere massacrando violentemente la loro vittima di turno. Per diventarlo è sufficiente fare sesso con la persona attualmente "maledetta", la quale, a orgasmo raggiunto, trasferisce il testimone alla successiva, che potrà liberarsene, a sua volta, esclusivamente esercitando lo stesso gioco. Il tutto con una semplice postilla: se l'ultimo soggetto in carica viene ucciso, automaticamente la palla ripasserà al penultimo.
Un circolo vizioso interminabile, dunque, che potrebbe rimandare ad un puritanesimo di fondo che tuttavia - siamo piuttosto sicuri - a Mitchell interessa zero, se non addirittura meno. Più facile pensare ad una sorta di bilanciamento cosmico, scaturito dal bene più puro per pareggiare l'esistenza in natura di entrambe le forze: inevitabilmente contrastanti e presenti fino a prova contraria.

Ma di ognuna di queste giustificazioni tuttavia Mitchell si fa beffa, le ignora, lascia che sia un gioco solo dello spettatore quello di trovare un filo logico alla sua creatura, che per lui, al contrario, funziona benissimo senza il bisogno di tecnicismi o di spiegoni da quattro soldi. In controtendenza con la maggior parte degli horror attuali "It Follows" è costruito con la sola e unica pretesa - vecchio stampo - di voler tenere sulle spine e sulla corda il suo spettatore, dall'inizio alla fine, sprigionando al cento per cento una tensione da tagliare con il coltello e generando un'agitazione generale a cui è impossibile restare immuni.
Normalissimo è quindi entrare, o provare a immedesimarsi, nei panni sfortunati della protagonista Jay: scioccata dalla situazione, ma allo stesso tempo responsabile di una contaminazione difficile da diffondere senza sentire addosso il peso di un senso di colpa che viaggia di pari passo con la paura di non essere mai completamente al sicuro. L'egoismo di svincolarsi facilmente dalla dannazione (specie per una donna, viene detto) concedendosi al rapporto sessuale, è un tema che la pellicola alla larga cerca di osservare e trattare, pur sapendo (e volendo) di dover prendere decisioni orientate maggiormente verso lo spettacolo e piegarsi quindi intorno a una praticità e ad un ritmo poco incline all'introspezione, ma più propenso all'effetto palpitante.

Queste scelte, un po' furbe, un po' necessarie, formano però l'intera efficacia della pellicola di Mitchell. Il suo è un horror che va giù tutto d'un fiato, mai scontato, capace di rapire dalla tensione così come dal divertimento. Uno di quelli a cui non si smette di pensare facilmente e che continua a seguirci e a stuzzicarci.
Uno di quelli, insomma, che sarebbe davvero un grosso peccato non poter vedere in sala.

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