Cate Blanchett è seduta al tavolo di un ristorante a parlare educatamente con Rooney Mara, finché un vecchio amico o ragazzo (non è ancora chiaro) della seconda, non le disturba ad alta voce spezzando il momento e interrompendole. E' troppo presto per sapere cosa stavano dicendo le due, stesso discorso vale per il tipo di legame che le accomuna, eppure nella scena successiva che inquadra il volto della Mara sul sedile posteriore di una macchina, un senso di malinconia fuoriesce dallo schermo proclamando l'allerta.
Per Todd Haynes il cinema è così, questione di gesti, di sguardi, un luogo in cui le parole ci sono, ma possono ingannare, privilegio che al linguaggio del corpo, invece, non è concesso. Per farsi travolgere da "Carol" allora non basta stare a sentire, o seguire la trama, ma bisogna soprattutto mettersi a guardare: guardare dietro la maschera di cortesia di Cate Blanchett, accorgersi del suo falso benessere, del movimento dei suoi occhi, capire che la freddezza nel volto della cassiera Rooney Mara è conseguenza della sua scelta di non dire mai no a nessuno, facendosi guidare dalla paura e sotterrando la speranza in fondo al cuore. Di queste sfumature "Carol" ne fa la sua potenza narrativa, la sua esplosione di emozioni e sentimento, che trattiene, in concomitanza con le sue protagoniste, per poi andarle a sprigionare seguendo il filo della loro tensione e colpendo duro allo stomaco dello spettatore. La New York degli anni cinquanta diventa perciò un teatro dai colori tiepidi e dal clima freddo, il posto in cui la relazione torbida, nata per caso, tra una donna in crisi con la sua sessualità e il marito e la giovinezza di una ragazza confusa, incapace di ascoltare sé stessa e i suoi bisogni, prende vita, andandosi a scontrare con le chiacchiere, le integrità, i tormenti di una società dove a contare cominciano ad essere l'apparenza e il giudizio.
Ma Haynes, come noi, di inseguire nuovamente gli stessi concetti non ne sente il bisogno, lui è attratto a pieno regime dalle sue donne, dai loro corpi, i loro istinti, dalla passione che entrambe sentono l'una per l'altra e che trattengono oltremisura (prima di cedere e abbandonarsi ad essa in una delle scene più affascinanti della pellicola). Fosse per il regista, dunque, la camera non si staccherebbe mai da loro, le seguirebbe in eterno, fiero di quella presa di coscienza che entrambe decidono di permettersi a vicenda per il rispetto della propria persona e felicità. Ma da rispettare tuttavia, in "Carol" non c'è solo l'amore lesbo tra la coppia straordinaria formata dalla Mara e dalla Blanchett, c'è anche la narrazione, una narrazione misurata, equilibrata, che ha lo scopo di accumulare e di caricarsi per poi spalancarsi repentinamente per mezzo di capovolgimenti di fronte ponderati e azzeccati. Doveri e piaceri, insomma, gli stessi che oltre a dover essere compiuti dal regista, in qualche modo - senza svelare troppo - tornano a farsi rispettare negli argomenti e nei ritmi della sceneggiatura melodrammatica e magistrale scritta da Phyllis Nagy, ispirata al romanzo omonimo di Patricia Highsmith.
Sfruttando l'esperienza incomparabile di cui è padrone, Haynes riesce ad unire quindi armoniosamente sia l'estetica che la struttura del suo racconto, attribuendogli quell'anima e quell'atmosfera che seppur non serve a farlo salire in cima al genere che rappresenta, lo aiuta ad essere unico e inconfondibile.
Una volta tornati a quel ristorante, quindi - in cui assistiamo alla stessa scena d'apertura da un'altra prospettiva - ogni cosa è al suo posto e ben definita, o quanto basta almeno per andare oltre lo sguardo malinconico di quella macchina e cadere in un risvolto romantico, da brividi e lacrime agli occhi.
Trailer:
Per Todd Haynes il cinema è così, questione di gesti, di sguardi, un luogo in cui le parole ci sono, ma possono ingannare, privilegio che al linguaggio del corpo, invece, non è concesso. Per farsi travolgere da "Carol" allora non basta stare a sentire, o seguire la trama, ma bisogna soprattutto mettersi a guardare: guardare dietro la maschera di cortesia di Cate Blanchett, accorgersi del suo falso benessere, del movimento dei suoi occhi, capire che la freddezza nel volto della cassiera Rooney Mara è conseguenza della sua scelta di non dire mai no a nessuno, facendosi guidare dalla paura e sotterrando la speranza in fondo al cuore. Di queste sfumature "Carol" ne fa la sua potenza narrativa, la sua esplosione di emozioni e sentimento, che trattiene, in concomitanza con le sue protagoniste, per poi andarle a sprigionare seguendo il filo della loro tensione e colpendo duro allo stomaco dello spettatore. La New York degli anni cinquanta diventa perciò un teatro dai colori tiepidi e dal clima freddo, il posto in cui la relazione torbida, nata per caso, tra una donna in crisi con la sua sessualità e il marito e la giovinezza di una ragazza confusa, incapace di ascoltare sé stessa e i suoi bisogni, prende vita, andandosi a scontrare con le chiacchiere, le integrità, i tormenti di una società dove a contare cominciano ad essere l'apparenza e il giudizio.
Ma Haynes, come noi, di inseguire nuovamente gli stessi concetti non ne sente il bisogno, lui è attratto a pieno regime dalle sue donne, dai loro corpi, i loro istinti, dalla passione che entrambe sentono l'una per l'altra e che trattengono oltremisura (prima di cedere e abbandonarsi ad essa in una delle scene più affascinanti della pellicola). Fosse per il regista, dunque, la camera non si staccherebbe mai da loro, le seguirebbe in eterno, fiero di quella presa di coscienza che entrambe decidono di permettersi a vicenda per il rispetto della propria persona e felicità. Ma da rispettare tuttavia, in "Carol" non c'è solo l'amore lesbo tra la coppia straordinaria formata dalla Mara e dalla Blanchett, c'è anche la narrazione, una narrazione misurata, equilibrata, che ha lo scopo di accumulare e di caricarsi per poi spalancarsi repentinamente per mezzo di capovolgimenti di fronte ponderati e azzeccati. Doveri e piaceri, insomma, gli stessi che oltre a dover essere compiuti dal regista, in qualche modo - senza svelare troppo - tornano a farsi rispettare negli argomenti e nei ritmi della sceneggiatura melodrammatica e magistrale scritta da Phyllis Nagy, ispirata al romanzo omonimo di Patricia Highsmith.
Sfruttando l'esperienza incomparabile di cui è padrone, Haynes riesce ad unire quindi armoniosamente sia l'estetica che la struttura del suo racconto, attribuendogli quell'anima e quell'atmosfera che seppur non serve a farlo salire in cima al genere che rappresenta, lo aiuta ad essere unico e inconfondibile.
Una volta tornati a quel ristorante, quindi - in cui assistiamo alla stessa scena d'apertura da un'altra prospettiva - ogni cosa è al suo posto e ben definita, o quanto basta almeno per andare oltre lo sguardo malinconico di quella macchina e cadere in un risvolto romantico, da brividi e lacrime agli occhi.
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