Leggi la filmografia di chi gira intorno a "The Invitation" e non te lo spieghi. Non riesci a trovare un filo logico che leghi la regista di "Æon Flux" e "Jennifer's Body" e gli sceneggiatori di quello stesso film con Charlize Theron, ma anche di "Scontro Tra Titani" e "R.I.P.D.: Poliziotti Dall'Aldilà", a quello che, probabilmente, sarà uno - se non il primo in assoluto - degli horror dell'anno. Sembra come se Karyn Kusama e i suoi fidi scrittori, Phil Hay e Matt Manfredi, avessero deciso di ripartire da zero, di voltare pagina con il passato e cominciare un percorso tutto nuovo che rivoluzionasse le loro idee e i loro obiettivi.
E chissà che - se così fosse - questo non sia stato lo spunto principale responsabile di "The Invitation", dove a fare da sfondo ai dubbi e ai sospetti del protagonista Will, c'è proprio un repentino cambiamento della sua ex-moglie, tornata a farsi viva dopo due anni di assenza con un invito elegante per una cena che richiama al rapporto, oltre che lui, anche tutti gli altri amici di vecchia data. Una reunion da trascorrere tra bicchieri di vino costoso, tre nuove conoscenze e qualche gioco di gruppo discutibile, per festeggiare il superamento del periodo complicato di lei nell'elegante sua dimora: luogo in cui Will non mette piede da quando un avvenimento scioccante ha messo la parola fine al suo matrimonio e nel quale torna non privo di turbamenti. Rispetto alla sua ex, infatti, lui ancora porta addosso i segni della depressione e della paranoia, quelli a cui la regia della Kusama si aggrappa per fornire alla pellicola i toni e le atmosfere di un thriller psicologico a tensione in crescendo. Perché, nella stravaganza complessiva che circola intorno ad una serata alquanto particolare, la distanza di Will, i suoi flashback improvvisi con i quali si allontana ogni tanto dalla percezione reale ed alcuni stacchi di regia, volutamente bruschi e inaspettati, non aiutano mai lo spettatore a sentirsi al sicuro e tranquillo, ponendolo continuamente all'interno di una condizione angosciosa che potrebbe essere unicamente sovraesposta e esagerata, per via dello sguardo del protagonista, come, al contrario, pienamente giustificata e pronta a sfogare.
Tiene fissi sul chi va la "The Invitation", allora, costruendosi da solo, passo passo, il mood migliore per manipolare - nel senso più positivo del termine - la sua esperienza visiva e la sua compiutezza. Cela un passato determinante che poi distende con parsimonia, mentre nel frattempo getta incertezze su dove soggiorni davvero il male, aggrappandosi stretto ad una sceneggiatura solida ed essenziale, in cui a fare la differenza sono quei dettagli, magari sfuggenti, che la Kusama, con furbizia, finge di buttare via, ma solo per evitare qualunque gioco d'anticipo e mantenere le redini (cosa che gli riesce sempre). Identico modus operandi con il quale la regista decide di ragionare, indirettamente, anche sulla fragilità umana e le sue conseguenze: argomento centrale, determinante ai fini della storia e chiave di volta in grado di trasformare il suo ottimo lavoro da thriller psicologico di partenza a vero e proprio horror cinico e scioccante, nel finale.
Del resto, per incutere terrore non è detto che ci sia necessariamente bisogno di un idea surreale, inedita o prodigiosa. Per raggiungere il bersaglio, a volte, basta poco, come per esempio ruotare attorno ad una tematica di per sé consumata, cambiandone il punto di vista e lavorando di ingegno. Come è successo agli sceneggiatori Hay e Manfredi che, portando all'estremo un punto debole facente parte della nostra natura, sono riusciti a dar nuova linfa a un canovaccio altrimenti consumato e con quasi null'altro da dire.
Che l'ispirazione, poi, gli sia arrivata o meno da una Los Angeles apertamente presa di mira (e che ben conoscono) è un discorso a parte. Un discorso su cui sicuramente si potrebbe riflettere, ma di cui per ora preferiamo prenderci solo l'immagine agghiacciante e magnetica dell'ultimo fotogramma. Il brivido conclusivo di un opera ineccepibile.
Trailer:
E chissà che - se così fosse - questo non sia stato lo spunto principale responsabile di "The Invitation", dove a fare da sfondo ai dubbi e ai sospetti del protagonista Will, c'è proprio un repentino cambiamento della sua ex-moglie, tornata a farsi viva dopo due anni di assenza con un invito elegante per una cena che richiama al rapporto, oltre che lui, anche tutti gli altri amici di vecchia data. Una reunion da trascorrere tra bicchieri di vino costoso, tre nuove conoscenze e qualche gioco di gruppo discutibile, per festeggiare il superamento del periodo complicato di lei nell'elegante sua dimora: luogo in cui Will non mette piede da quando un avvenimento scioccante ha messo la parola fine al suo matrimonio e nel quale torna non privo di turbamenti. Rispetto alla sua ex, infatti, lui ancora porta addosso i segni della depressione e della paranoia, quelli a cui la regia della Kusama si aggrappa per fornire alla pellicola i toni e le atmosfere di un thriller psicologico a tensione in crescendo. Perché, nella stravaganza complessiva che circola intorno ad una serata alquanto particolare, la distanza di Will, i suoi flashback improvvisi con i quali si allontana ogni tanto dalla percezione reale ed alcuni stacchi di regia, volutamente bruschi e inaspettati, non aiutano mai lo spettatore a sentirsi al sicuro e tranquillo, ponendolo continuamente all'interno di una condizione angosciosa che potrebbe essere unicamente sovraesposta e esagerata, per via dello sguardo del protagonista, come, al contrario, pienamente giustificata e pronta a sfogare.
Tiene fissi sul chi va la "The Invitation", allora, costruendosi da solo, passo passo, il mood migliore per manipolare - nel senso più positivo del termine - la sua esperienza visiva e la sua compiutezza. Cela un passato determinante che poi distende con parsimonia, mentre nel frattempo getta incertezze su dove soggiorni davvero il male, aggrappandosi stretto ad una sceneggiatura solida ed essenziale, in cui a fare la differenza sono quei dettagli, magari sfuggenti, che la Kusama, con furbizia, finge di buttare via, ma solo per evitare qualunque gioco d'anticipo e mantenere le redini (cosa che gli riesce sempre). Identico modus operandi con il quale la regista decide di ragionare, indirettamente, anche sulla fragilità umana e le sue conseguenze: argomento centrale, determinante ai fini della storia e chiave di volta in grado di trasformare il suo ottimo lavoro da thriller psicologico di partenza a vero e proprio horror cinico e scioccante, nel finale.
Del resto, per incutere terrore non è detto che ci sia necessariamente bisogno di un idea surreale, inedita o prodigiosa. Per raggiungere il bersaglio, a volte, basta poco, come per esempio ruotare attorno ad una tematica di per sé consumata, cambiandone il punto di vista e lavorando di ingegno. Come è successo agli sceneggiatori Hay e Manfredi che, portando all'estremo un punto debole facente parte della nostra natura, sono riusciti a dar nuova linfa a un canovaccio altrimenti consumato e con quasi null'altro da dire.
Che l'ispirazione, poi, gli sia arrivata o meno da una Los Angeles apertamente presa di mira (e che ben conoscono) è un discorso a parte. Un discorso su cui sicuramente si potrebbe riflettere, ma di cui per ora preferiamo prenderci solo l'immagine agghiacciante e magnetica dell'ultimo fotogramma. Il brivido conclusivo di un opera ineccepibile.
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