Portali che si aprono, palazzi che ruotano, città che si capovolgono. Sembra adagiato su un cubo di Rubick “Doctor Strange”, su di una scenografia che dovrebbe avere dello spettacolare, del magico, contraddistinguersi come qualcosa di unico, sebbene per come venga utilizzata riesca solamente a confondere la visione, a disturbarla e a rendere fastidioso un film d’esordio piuttosto scarico e ordinario.
Verrebbe da dire che non si presti troppo al cinema questo dottore votato alla stregoneria: che dopo un incidente automobilistico che gli impedisce di svolgere il mestiere di neurochirurgo - per il quale era disposto a sacrificare la sua vita - comincia a battere tutte le piste possibili per sistemare le sue mani, trovando speranza nella medicina orientale e, nello specifico, nelle indicazioni e negli insegnamenti di un mentore, chiamato Antico, dedito allo spirito e al potere soprannaturale. Eppure è possibile che a complicare la vita del battesimo nel Marvelverse di “Doctor Strange” sia più che altro una scelta registica non all'altezza, impreparata nell'affrontare un genere come il fantasy di petto e più a suo agio a contenerlo a colpi di quel fioretto che in passato (con la fantascienza) aveva già accennato di preferire. Scott Derrickson - che comunque (e carta canta) se la cava meglio con l’horror - infatti è più un appassionato di corpo che di spirito, a lui piace più ciò che sta in mezzo alla CGI, a quegli effetti speciali ricreati al computer che hanno lo scopo esclusivo di colorare la scena e di riempirla. A lui piacciono gli attori, i loro conflitti (interni ed esterni), ciò che questi possono portare a galla se costretti ad essere esplorati, visti faccia a faccia, isolati da tutto ciò che è calcolabile come decorativo o dispersivo. Una propensione che a contatto con le esigenze (incorporee) della Marvel deve, ovviamente, scivolare in secondo piano, esser trattenuta, ma che comunque, inevitabilmente, si ritrova a venir fuori quando, nell'economia nel suo lavoro, ci accorgiamo che a funzionare meglio sono proprio quei momenti denominati viscerali e intimi, rispetto ai più caotici e ammalianti dove, invece, la fatica e la non dimestichezza si fanno sentire e neanche poco.
Un uomo fuori luogo, sostanzialmente, al quale non è stato concesso neppure margine decisionale su di una sceneggiatura in cui tutto scorre veloce, incontrollato, dove il profilo del protagonista è steso in fretta e furia, con l’accetta, per arrivare il prima possibile a quel nettare caleidoscopico fatto di multiversi, giochi di luce, incantesimi e corpi astrali che frastornano e spossano con la stessa facilità con cui affascinano e incuriosiscono. Una cascata di eventi che Derrickson riesce a tenere a malapena sotto controllo, dovendola acchiappare quando sembra volergli sfuggire di mano e nella quale non ha a disposizione il tempo necessario per elaborare sottotrame romantiche e profili umani come, in qualche frangente, fa intuire, tanto avrebbe voluto. Una mancanza di proporzioni che a “Doctor Strange” gli fa perdere un po’ quello spirito da cinecomic sul quale avrebbe dovuto puntare di più, magari, spingendo il pedale sull’ironia sottile e appuntita che quando entra in scena lo lascia aderire meglio al suo mondo, dando quasi la percezione che una modalità per renderlo efficace al cinema c’era ed era perseguibile.
Come già successo, però, per molti dei capitoli introduttivi di casa Marvel, anche in questo si commette l’errore di affidarsi a un’intelaiatura rigida e abbondantemente telefonata, fissata su di una linea retta, priva di curve, che ormai appare quasi come uno stampino a cui aggrapparsi per non rischiare di fallire in rampa di lancio. Una politica aziendale che sicuramente da i suoi frutti su larga scala, ma che non restituisce giustizia ad un’opera che poteva offrire assai più di qualche risatina, combattimento discreto e lontani ricordi di “Star Wars” (anche qui c’è un discorso relativo al lato oscuro e al lato chiaro) piuttosto che di “Inception”.
Che, per la cronaca, in quanto a giocare con Escher e con la materia, sapeva essere due, se non tre spanne superiore. E questo perché Christopher Nolan, spiritualmente, sa essere regista più formato e abile di Derrickson.
Trailer:
Verrebbe da dire che non si presti troppo al cinema questo dottore votato alla stregoneria: che dopo un incidente automobilistico che gli impedisce di svolgere il mestiere di neurochirurgo - per il quale era disposto a sacrificare la sua vita - comincia a battere tutte le piste possibili per sistemare le sue mani, trovando speranza nella medicina orientale e, nello specifico, nelle indicazioni e negli insegnamenti di un mentore, chiamato Antico, dedito allo spirito e al potere soprannaturale. Eppure è possibile che a complicare la vita del battesimo nel Marvelverse di “Doctor Strange” sia più che altro una scelta registica non all'altezza, impreparata nell'affrontare un genere come il fantasy di petto e più a suo agio a contenerlo a colpi di quel fioretto che in passato (con la fantascienza) aveva già accennato di preferire. Scott Derrickson - che comunque (e carta canta) se la cava meglio con l’horror - infatti è più un appassionato di corpo che di spirito, a lui piace più ciò che sta in mezzo alla CGI, a quegli effetti speciali ricreati al computer che hanno lo scopo esclusivo di colorare la scena e di riempirla. A lui piacciono gli attori, i loro conflitti (interni ed esterni), ciò che questi possono portare a galla se costretti ad essere esplorati, visti faccia a faccia, isolati da tutto ciò che è calcolabile come decorativo o dispersivo. Una propensione che a contatto con le esigenze (incorporee) della Marvel deve, ovviamente, scivolare in secondo piano, esser trattenuta, ma che comunque, inevitabilmente, si ritrova a venir fuori quando, nell'economia nel suo lavoro, ci accorgiamo che a funzionare meglio sono proprio quei momenti denominati viscerali e intimi, rispetto ai più caotici e ammalianti dove, invece, la fatica e la non dimestichezza si fanno sentire e neanche poco.
Un uomo fuori luogo, sostanzialmente, al quale non è stato concesso neppure margine decisionale su di una sceneggiatura in cui tutto scorre veloce, incontrollato, dove il profilo del protagonista è steso in fretta e furia, con l’accetta, per arrivare il prima possibile a quel nettare caleidoscopico fatto di multiversi, giochi di luce, incantesimi e corpi astrali che frastornano e spossano con la stessa facilità con cui affascinano e incuriosiscono. Una cascata di eventi che Derrickson riesce a tenere a malapena sotto controllo, dovendola acchiappare quando sembra volergli sfuggire di mano e nella quale non ha a disposizione il tempo necessario per elaborare sottotrame romantiche e profili umani come, in qualche frangente, fa intuire, tanto avrebbe voluto. Una mancanza di proporzioni che a “Doctor Strange” gli fa perdere un po’ quello spirito da cinecomic sul quale avrebbe dovuto puntare di più, magari, spingendo il pedale sull’ironia sottile e appuntita che quando entra in scena lo lascia aderire meglio al suo mondo, dando quasi la percezione che una modalità per renderlo efficace al cinema c’era ed era perseguibile.
Come già successo, però, per molti dei capitoli introduttivi di casa Marvel, anche in questo si commette l’errore di affidarsi a un’intelaiatura rigida e abbondantemente telefonata, fissata su di una linea retta, priva di curve, che ormai appare quasi come uno stampino a cui aggrapparsi per non rischiare di fallire in rampa di lancio. Una politica aziendale che sicuramente da i suoi frutti su larga scala, ma che non restituisce giustizia ad un’opera che poteva offrire assai più di qualche risatina, combattimento discreto e lontani ricordi di “Star Wars” (anche qui c’è un discorso relativo al lato oscuro e al lato chiaro) piuttosto che di “Inception”.
Che, per la cronaca, in quanto a giocare con Escher e con la materia, sapeva essere due, se non tre spanne superiore. E questo perché Christopher Nolan, spiritualmente, sa essere regista più formato e abile di Derrickson.
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