Bisogna smetterla di approcciare le storie vere al cinema come a dei film da rispettare o amare a prescindere perché figlie di una realtà, il più delle volte crudele. Bisogna smetterla soprattutto se queste storie sono adattate nella maniera più retorica e furba possibile, indugiando laddove non bisognerebbe indugiare e scadendo nel didascalico laddove le immagini parlerebbero da sole.
Quella raccontata da "Lion: La Strada Verso Casa" è un odissea incredibile, commovente, struggente: con un bambino indiano, di classe povera, che accidentalmente si addormenta su un treno risvegliandosi così lontano da casa da non ricordare più la strada del ritorno, finendo dopo mille peripezie in adozione a una famiglia australiana che se ne prende cura, crescendolo e sostenendolo, anche quando, a distanza di vent'anni, lui comincia a sentire l'esigenza di fare luce sulle sue origini andando alla ricerca della sua vera terra natia. Una storia che, effettivamente, si presta al cinema davvero come poche quella di Saroo, ma che nelle mani dello sceneggiatore Luke Davies e del regista Garth Davis, riesce nell'impresa di rimanere indigesta a tal punto da sembrare il contrario. Ne realizzano un polpettone i due, infatti, eccedendo con una prima parte dedicata a Saroo bambino, troppo lunga e dilatata, e facendosi prendere la mano in una seconda - in cui il protagonista è ormai adulto - in cui la volontà di esser cristallini e di non lasciar nulla alla poetica e all'intuizione dello spettatore appesantisce una carica emotiva che, praticamente, rimane schiacciata, incapace di mettersi in moto. Questo nonostante gli umani sensi di colpa del ragazzo che si fa in quattro pur di far sapere alla madre biologica e a suo fratello maggiore di essere ancora vivo, tranquillizzare i loro animi - che immagina (giustamente) disperati e a pezzi - e toglierli dalle colpe di una sparizione che c'è stata, si poteva evitare, ma sulla quale è inutile mettersi a inaugurare qualsiasi tipo di concorso di colpa.
Sarebbe servita un'altra sceneggiatura e un altro regista, quindi, al romanzo autobiografico "A Long Way Home" (scritto sempre da Saroo) per essere onorato al cinema come si deve. Qualcuno dotato di uno sguardo totale, meno diretto e di un tatto differente, più leggero: capace di non ridicolizzare troppo la parentesi Google Earth e di ritagliare, magari, più spazio per descrivere la (non) fratellanza e la convivenza complicata tra Saroo e suo fratello adottivo Manthos, anche lui figlio di un destino pessimo, se non addirittura peggiore. Anziché abbracciare il prolisso, la pellicola poteva cambiare campo e tornare realmente in India a seguire il dolore di una madre e di un fratello (soprattutto) massacrati da una condizione economica che inevitabilmente comporta negligenze, alternandoli, in parallelo, alla conoscenza dei due coniugi interpretati da Nicole Kidman e David Wenham che, per volontà, pur potendo avere figli, hanno deciso di rinunciare ai loro per aiutare gli esistenti, meno fortunati.
Temi drammatici su cui "Lion: La Strada Verso Casa" avrebbe potuto tessere una coperta assai più resistente ed efficace di quella che poi ha scelto, con l'opportunità di risultare maggiormente sincero e sensibile di quanto, a conti fatti, infine è da considerarsi concretamente.
Per cui non è colpa nostra se di fronte alla disgrazia (cinematografica) di Saroo provare empatia e trascinamento è una missione più complicata di quel che credevamo. Non siamo noi ad essere insensibili, ad avere il cuore di pietra e lo possiamo dire con certezza perché quando nei titoli di coda partono le immagini reali della storia, quelle col Saroo originale che fa incontrare le sue due mamme, i nostri occhi si inumidiscono come d'incanto e quella lacrima che credevamo dispersa chissà dove, fa di tutto per scendere giù.
Trailer:
Quella raccontata da "Lion: La Strada Verso Casa" è un odissea incredibile, commovente, struggente: con un bambino indiano, di classe povera, che accidentalmente si addormenta su un treno risvegliandosi così lontano da casa da non ricordare più la strada del ritorno, finendo dopo mille peripezie in adozione a una famiglia australiana che se ne prende cura, crescendolo e sostenendolo, anche quando, a distanza di vent'anni, lui comincia a sentire l'esigenza di fare luce sulle sue origini andando alla ricerca della sua vera terra natia. Una storia che, effettivamente, si presta al cinema davvero come poche quella di Saroo, ma che nelle mani dello sceneggiatore Luke Davies e del regista Garth Davis, riesce nell'impresa di rimanere indigesta a tal punto da sembrare il contrario. Ne realizzano un polpettone i due, infatti, eccedendo con una prima parte dedicata a Saroo bambino, troppo lunga e dilatata, e facendosi prendere la mano in una seconda - in cui il protagonista è ormai adulto - in cui la volontà di esser cristallini e di non lasciar nulla alla poetica e all'intuizione dello spettatore appesantisce una carica emotiva che, praticamente, rimane schiacciata, incapace di mettersi in moto. Questo nonostante gli umani sensi di colpa del ragazzo che si fa in quattro pur di far sapere alla madre biologica e a suo fratello maggiore di essere ancora vivo, tranquillizzare i loro animi - che immagina (giustamente) disperati e a pezzi - e toglierli dalle colpe di una sparizione che c'è stata, si poteva evitare, ma sulla quale è inutile mettersi a inaugurare qualsiasi tipo di concorso di colpa.
Sarebbe servita un'altra sceneggiatura e un altro regista, quindi, al romanzo autobiografico "A Long Way Home" (scritto sempre da Saroo) per essere onorato al cinema come si deve. Qualcuno dotato di uno sguardo totale, meno diretto e di un tatto differente, più leggero: capace di non ridicolizzare troppo la parentesi Google Earth e di ritagliare, magari, più spazio per descrivere la (non) fratellanza e la convivenza complicata tra Saroo e suo fratello adottivo Manthos, anche lui figlio di un destino pessimo, se non addirittura peggiore. Anziché abbracciare il prolisso, la pellicola poteva cambiare campo e tornare realmente in India a seguire il dolore di una madre e di un fratello (soprattutto) massacrati da una condizione economica che inevitabilmente comporta negligenze, alternandoli, in parallelo, alla conoscenza dei due coniugi interpretati da Nicole Kidman e David Wenham che, per volontà, pur potendo avere figli, hanno deciso di rinunciare ai loro per aiutare gli esistenti, meno fortunati.
Temi drammatici su cui "Lion: La Strada Verso Casa" avrebbe potuto tessere una coperta assai più resistente ed efficace di quella che poi ha scelto, con l'opportunità di risultare maggiormente sincero e sensibile di quanto, a conti fatti, infine è da considerarsi concretamente.
Per cui non è colpa nostra se di fronte alla disgrazia (cinematografica) di Saroo provare empatia e trascinamento è una missione più complicata di quel che credevamo. Non siamo noi ad essere insensibili, ad avere il cuore di pietra e lo possiamo dire con certezza perché quando nei titoli di coda partono le immagini reali della storia, quelle col Saroo originale che fa incontrare le sue due mamme, i nostri occhi si inumidiscono come d'incanto e quella lacrima che credevamo dispersa chissà dove, fa di tutto per scendere giù.
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