Durante la guerra di secessione americana, nel 1863, alcuni americani bianchi, con nessuna servitù da mantenere, decisero di smetterla di combattere una guerra civile che non gli apparteneva, disertando e proclamandosi indipendenti dai confederati e da qualsiasi altra fazione. Fu l’inizio della nascita di un movimento ribelle composto, per lo più, da contadini del Mississippi stanchi di vedersi togliere materie prime con la forza da un governo alla continua ricerca di viveri con cui sfamare i propri soldati, infoltito da una buona percentuale di neri, ex-schiavi, fuggiti dai loro padroni e integrati dal buon senso e dalle idee politiche rivoluzionarie del leader e fondatore del gruppo, Newton Knight.
Si affida a un’angolazione inedita, o comunque poco battuta, il regista e sceneggiatore Gary Ross, quindi, per discutere di argomenti come schiavitù, libertà e uguaglianza razziale. Un’angolazione dai tratti oggettivi, rara, rigorosamente non schierata e soprattutto non incline a sensibilizzare con futile retorica l’anima e il pensiero dello spettatore coinvolto e chiamato all'appello. Il suo è un approccio di tipo costruttivo, capace di schivare tutte le trappole in cui moltissimi prima di lui son caduti con tutte le scarpe, pregno di quella consapevolezza secondo la quale osservare la luna, tendenzialmente, è assai più interessante che fermarsi a guardare il dito che la punta. Sarà per via di questo ragionamento, allora, che il suo lavoro non perde mai tempo a soffermarsi su quegli episodi di violenza, spesso esplicita, volti a ribadire la crudeltà di una condizione sbagliata ed ingiusta; che lo sguardo della camera, quando la pellicola si concede a presagi (rarissimi) di abusi o torture, è sempre orientato verso la discrezione più assoluta: che può significare direttamente stacco all'altra scena, oppure un’inquadratura evocativa, chiara, ma mai e poi mai dettagliata e integrale.
Perché osservare la luna significa, per forza, andare sotto quella banale superficie dettata dal colore della pelle che spesso inganna e fa fraintendere la verità: e cioè che il dispregiativo di “negro”, così come veniva e viene ad oggi utilizzato, riguardi un po’ tutti gli esseri umani, a prescindere dalla loro discendenza.
Ci fa vedere che il Re è nudo “Free State Of Jones”, che per calzare quel termine sinonimo di sottomissione, di schiavismo e discriminatorio basta meno di quel che si pensi: come ribellarsi, magari, alle regole di un padrone (o di uno stato) ed essere costretti a rifugiarsi in una palude per evitare sanzioni o, alla peggio, l’impiccagione. Dimostra di avere le idee giuste Ross, di voler realizzare un’opera epica, muscolare, lontanamente ispirata al modello “Braveheart” e in grado di incarnare allo stesso tempo una veste Storica, ma anche contemporanea. Ambizione che porta a casa con grande sobrietà e senso della misura, costruendo ottimo cinema, pregno di provocazioni stimolanti, e non cedendo il passo neppure quando l’esile trama extra del secondo figlio di Knight - che sposta di 85 anni avanti la narrazione - fa capolino dissestando momentaneamente una linearità grossomodo regolare.
Meriti che vanno tanto a lui, quanto al protagonista assoluto e ormai certezza Matthew McConaughey, il quale con estrema padronanza e rigore si carica il film sulle spalle, portandolo a compimento senza manifestare il cenno della minima fatica nonostante il peso (sono quasi due ore e mezza). Unendo le forze, lui e Ross, tirano fuori uno dei migliori lavori sul genere comparsi al cinema negli ultimi anni, collocabile dieci spanne sopra il tanto decantato e attuale, ma nettamente inferiore, “The Birth Of A Nation”, che proprio da questo bellissimo “Free State Of Jones” parecchio avrebbe da apprendere e da appuntarsi.
E con lui molti altri affiliati.
Si affida a un’angolazione inedita, o comunque poco battuta, il regista e sceneggiatore Gary Ross, quindi, per discutere di argomenti come schiavitù, libertà e uguaglianza razziale. Un’angolazione dai tratti oggettivi, rara, rigorosamente non schierata e soprattutto non incline a sensibilizzare con futile retorica l’anima e il pensiero dello spettatore coinvolto e chiamato all'appello. Il suo è un approccio di tipo costruttivo, capace di schivare tutte le trappole in cui moltissimi prima di lui son caduti con tutte le scarpe, pregno di quella consapevolezza secondo la quale osservare la luna, tendenzialmente, è assai più interessante che fermarsi a guardare il dito che la punta. Sarà per via di questo ragionamento, allora, che il suo lavoro non perde mai tempo a soffermarsi su quegli episodi di violenza, spesso esplicita, volti a ribadire la crudeltà di una condizione sbagliata ed ingiusta; che lo sguardo della camera, quando la pellicola si concede a presagi (rarissimi) di abusi o torture, è sempre orientato verso la discrezione più assoluta: che può significare direttamente stacco all'altra scena, oppure un’inquadratura evocativa, chiara, ma mai e poi mai dettagliata e integrale.
Perché osservare la luna significa, per forza, andare sotto quella banale superficie dettata dal colore della pelle che spesso inganna e fa fraintendere la verità: e cioè che il dispregiativo di “negro”, così come veniva e viene ad oggi utilizzato, riguardi un po’ tutti gli esseri umani, a prescindere dalla loro discendenza.
Ci fa vedere che il Re è nudo “Free State Of Jones”, che per calzare quel termine sinonimo di sottomissione, di schiavismo e discriminatorio basta meno di quel che si pensi: come ribellarsi, magari, alle regole di un padrone (o di uno stato) ed essere costretti a rifugiarsi in una palude per evitare sanzioni o, alla peggio, l’impiccagione. Dimostra di avere le idee giuste Ross, di voler realizzare un’opera epica, muscolare, lontanamente ispirata al modello “Braveheart” e in grado di incarnare allo stesso tempo una veste Storica, ma anche contemporanea. Ambizione che porta a casa con grande sobrietà e senso della misura, costruendo ottimo cinema, pregno di provocazioni stimolanti, e non cedendo il passo neppure quando l’esile trama extra del secondo figlio di Knight - che sposta di 85 anni avanti la narrazione - fa capolino dissestando momentaneamente una linearità grossomodo regolare.
Meriti che vanno tanto a lui, quanto al protagonista assoluto e ormai certezza Matthew McConaughey, il quale con estrema padronanza e rigore si carica il film sulle spalle, portandolo a compimento senza manifestare il cenno della minima fatica nonostante il peso (sono quasi due ore e mezza). Unendo le forze, lui e Ross, tirano fuori uno dei migliori lavori sul genere comparsi al cinema negli ultimi anni, collocabile dieci spanne sopra il tanto decantato e attuale, ma nettamente inferiore, “The Birth Of A Nation”, che proprio da questo bellissimo “Free State Of Jones” parecchio avrebbe da apprendere e da appuntarsi.
E con lui molti altri affiliati.
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