Era il 1984 quando le strade di Steven Spielberg e di Roald Dahl si incrociarono per la prima volta. Di mezzo c’era il film “Gremlins”, libro per bambini dello scrittore che il regista decise di produrre, ma non di dirigere, dopo che la Disney aveva abbandonato il progetto rinunciandone anche ai diritti. Pezzi di un cerchio, all'epoca spezzato, che trentadue anni dopo, invece, il destino trova il modo di comporre integralmente: tramite l’adattamento cinematografico del romanzo, forse, più noto di Dahl, “Il GGG: Il Grande Gigante Gentile”, che stavolta Spielberg dirige in prima persona e la Disney produce di prepotenza (insieme a Spielberg, però).
Un viaggio a ritroso per il regista, che torna ad immergersi in un mondo fantastico e a raccontare di orfani e di magia, risvegliando nella nostra memoria (ma anche nella sua, probabilmente) i ricordi remoti di “Hook: Capitano Uncino”, con il quale questo “Il GGG: Il Grande Gigante Gentile” ha, direttamente o meno, moltissimi punti in comune. Anche la piccola Sophie protagonista, infatti, dall'orfanotrofio in cui vive finisce in una terra simile all'isola che non c’è, una terra introvabile, ricca di insidie e di meraviglie, dove vive il gigante che l’ha rapita e che intende prendersene cura nonostante non possa lasciarla libera, perché lei è riuscita a vederlo in faccia e potrebbe mettere a repentaglio la sua identità nel mondo degli esseri umani. Una prigionia che, tempo uno schiocco di dita, si fa amicizia spontanea e sincera, con il GGG che mostra a Sophie la sua vulnerabilità mentre cerca di proteggerla dai giganti cattivi che potrebbero mangiarla e da cui puntualmente, a causa della sua statura inferiore, viene maltrattato e insultato. Lo squarcio di umanità che non ti aspetti da una creatura così possente e spropositata, una caratteristica su cui Spielberg insiste molto e che sfrutta per legare indissolubilmente due vite solitarie bisognose di compagnia, assai meno distanti tra loro di quanto indichino le misure, nonché indispensabili l’un per l’altra se di mezzo c’è il concetto della felicità e della crescita.
Una favola per grandi, una favola per piccoli, una favola per tutti. Non fa distinzioni “Il GGG: Il Grande Gigante Gentile”, non ha target, o meglio lo ha ed è trasversale. È una di quelle storie che ti rapiscono a prescindere, che non si rivolgono a nessuno in particolare perché mettono in ballo emozioni umane, emozioni schiette, quelle che non hanno scadenza e quindi non hanno età. Lavora col CGI, Spielberg, ma non ne abusa come ultimamente altre pellicole ci hanno abituato, pensa sempre a come potrebbe sfruttarlo con logica, adeguatamente, per fare in modo che l’anima della sua pellicola non perda di nitidezza e continui a produrre calore. Quel calore con cui sa sbalordire quando ci porta a caccia di sogni in un luogo accessibile unicamente a testa in giù e dominato dai colori; quello che ci fa venire le lacrime agli occhi quando Sophie è costretta a ripetere una battuta che ad ogni replica cambia tono, assumendo gradualmente tristezza; quello scaturito dai cambiamenti quasi impercettibili del volto di un gigantesco (è proprio il caso di dirlo) Mark Rylance, che nei primi piani, spesso, senza aprire bocca, riesce a comunicare più di quanto potrebbe fare con un monologo.
Momenti altissimi, momenti indelebili con cui la pellicola raggiunge l’apice, incantando e permettendo allo spettatore di evadere e di abbandonarsi al sogno, immaginandosi, magari, al fianco di Sophie e GGG nel palazzo reale della Regina d’Inghilterra, dove le convenzioni improvvisamente crollano e fanno posto a quella sbadataggine e spontaneità che scatena risate a pioggia, incontenibili.
Espressioni massime di un blockbuster al quale si perdonano persino le presce di un epilogo conflittuale un po’ troppo sbrigativo, che risalta una propensione a tendere più dalla parte del cuore e dei suoi battiti, anziché della mente e della smania di spettacolarizzazione. Perché, in fin dei conti, a noi sta bene così, preferiamo fantasticare, credere alla straordinarietà di cui siamo sempre alla ricerca, convinti che, prima o poi, potremo riuscire anche a scovarla e ad afferrarla.
Resta solo da capire, ora, se con l’aiuto di un gigante gentile o delle coordinate di Steven Spielberg.
Trailer:
Un viaggio a ritroso per il regista, che torna ad immergersi in un mondo fantastico e a raccontare di orfani e di magia, risvegliando nella nostra memoria (ma anche nella sua, probabilmente) i ricordi remoti di “Hook: Capitano Uncino”, con il quale questo “Il GGG: Il Grande Gigante Gentile” ha, direttamente o meno, moltissimi punti in comune. Anche la piccola Sophie protagonista, infatti, dall'orfanotrofio in cui vive finisce in una terra simile all'isola che non c’è, una terra introvabile, ricca di insidie e di meraviglie, dove vive il gigante che l’ha rapita e che intende prendersene cura nonostante non possa lasciarla libera, perché lei è riuscita a vederlo in faccia e potrebbe mettere a repentaglio la sua identità nel mondo degli esseri umani. Una prigionia che, tempo uno schiocco di dita, si fa amicizia spontanea e sincera, con il GGG che mostra a Sophie la sua vulnerabilità mentre cerca di proteggerla dai giganti cattivi che potrebbero mangiarla e da cui puntualmente, a causa della sua statura inferiore, viene maltrattato e insultato. Lo squarcio di umanità che non ti aspetti da una creatura così possente e spropositata, una caratteristica su cui Spielberg insiste molto e che sfrutta per legare indissolubilmente due vite solitarie bisognose di compagnia, assai meno distanti tra loro di quanto indichino le misure, nonché indispensabili l’un per l’altra se di mezzo c’è il concetto della felicità e della crescita.
Una favola per grandi, una favola per piccoli, una favola per tutti. Non fa distinzioni “Il GGG: Il Grande Gigante Gentile”, non ha target, o meglio lo ha ed è trasversale. È una di quelle storie che ti rapiscono a prescindere, che non si rivolgono a nessuno in particolare perché mettono in ballo emozioni umane, emozioni schiette, quelle che non hanno scadenza e quindi non hanno età. Lavora col CGI, Spielberg, ma non ne abusa come ultimamente altre pellicole ci hanno abituato, pensa sempre a come potrebbe sfruttarlo con logica, adeguatamente, per fare in modo che l’anima della sua pellicola non perda di nitidezza e continui a produrre calore. Quel calore con cui sa sbalordire quando ci porta a caccia di sogni in un luogo accessibile unicamente a testa in giù e dominato dai colori; quello che ci fa venire le lacrime agli occhi quando Sophie è costretta a ripetere una battuta che ad ogni replica cambia tono, assumendo gradualmente tristezza; quello scaturito dai cambiamenti quasi impercettibili del volto di un gigantesco (è proprio il caso di dirlo) Mark Rylance, che nei primi piani, spesso, senza aprire bocca, riesce a comunicare più di quanto potrebbe fare con un monologo.
Momenti altissimi, momenti indelebili con cui la pellicola raggiunge l’apice, incantando e permettendo allo spettatore di evadere e di abbandonarsi al sogno, immaginandosi, magari, al fianco di Sophie e GGG nel palazzo reale della Regina d’Inghilterra, dove le convenzioni improvvisamente crollano e fanno posto a quella sbadataggine e spontaneità che scatena risate a pioggia, incontenibili.
Espressioni massime di un blockbuster al quale si perdonano persino le presce di un epilogo conflittuale un po’ troppo sbrigativo, che risalta una propensione a tendere più dalla parte del cuore e dei suoi battiti, anziché della mente e della smania di spettacolarizzazione. Perché, in fin dei conti, a noi sta bene così, preferiamo fantasticare, credere alla straordinarietà di cui siamo sempre alla ricerca, convinti che, prima o poi, potremo riuscire anche a scovarla e ad afferrarla.
Resta solo da capire, ora, se con l’aiuto di un gigante gentile o delle coordinate di Steven Spielberg.
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