Boston: Caccia All’Uomo - La Recensione

Boston: Caccia All’Uomo WahlbergIl lato umano, la celebrazione.
Nel cinema di Peter Berg - lo abbiamo capito, ormai - sono questi gli elementi più importanti, quelli che lo stimolano a raccontare storie, ad accettare progetti, ad entrare in simbiosi con un paese - l’America - di cui è patriota fiero e incallito, come allo stesso modo è patriota fiero e incallito il suo partner di fiducia Mark Wahlberg, con il quale - possiamo dire - da un po’ di tempo viaggia a braccetto e in totale sintonia.

Una sintonia che inizialmente stonava, strideva, perché quando pratichi un certo tipo di cinema il rischio che la glassa della retorica lo inondi, andando a coprire tutti i sapori riposti all’interno è enorme, e se non sei pratico, non hai il senso della misura, della sensibilità, finisce che per quanto le tue intenzioni siano buone poi restano comunque sullo stomaco, mal digerite. E la paura di non digerire un film come “Patriots Day” – in Italia “Boston: Caccia All’Uomo” – che addirittura il patriottismo se lo portava già da dentro al titolo era tanta, tanta nonostante a precederlo c’era stato quel “Deepwater: Inferno Sull’Oceano” che un miglioramento netto sotto il profilo della gestione emozionale e passionale da parte di Berg l’aveva messo in mostra e anche piuttosto bene. E a quanto pare il fatto che si trattasse di un disastro ambientale, e quindi di una storia con al centro un danno provocato comunque accidentalmente non centrava niente, perché nonostante il regista sia tornato a fare i conti col terrorismo, nello specifico con l’attentato alla Maratona di Boston che nel 2013 causò 3 vittime e 264 feriti, il suo tocco pare davvero adesso essere più affinato e maturo alla radice, orientato ancora verso le stesse inclinazioni, sulle quali resta legato stretto, ma con la capacità di mantenerne decisi e distinti i caratteri, tutelandone la forza (cosa che, in passato, gli imputavamo di non riuscire ad eseguire).

Boston: Caccia All’Uomo J.K. SimmonsPiù che il fatto di cronaca di quello che in breve tempo fu rinominato come l’atto terroristico più grave subito dagli Stati Uniti dopo l’11 Settembre, a Berg allora interessa la reazione, e non solo quella della rincorsa al (ai?) colpevole da parte delle autorità, ma quella dimostrata da una città ferita, messa in ginocchio metaforicamente e non, che non ha avuto esitazioni a rialzarsi, a ricompattarsi e a rimboccarsi le maniche collaborando a stretto contatto con la giustizia e diventandone, di fatto, supplemento indispensabile, dalle infinite risorse. Si attiene fedelmente agli atti “Boston: Caccia All’Uomo” e quando serve ci va giù duro ricordandoci, semmai dovessimo perderlo di vista, il significato di terrorista e l’implacabilità che fa da padrona al termine (ma sempre senza esagerare e con obiettività). Dopo un incipit in cui cerca di dare un minimo di lineamento ai futuri protagonisti, giunge secco al punto per poi immergersi completamente in quelle che furono le ore successive alla tragedia, focalizzandone i momenti salienti e riuscendo a (ri)costruire, camera a mano, la tensione, il dolore e il pericolo vissuto da chi per scelta, o suo malgrado, si è trovato faccia a faccia con il male, sopperendone o sfidandolo a sorte. Una caccia proseguita realmente per giorni e giorni, che Berg riassume conciso in poco più di due ore, nelle quali sfugge integralmente a ogni enfasi o ridondanza e non perde in nessun frangente il controllo della situazione, dando di rado e per scarsissimi istanti segnali di stanchezza.

Resta lucido fino alla fine, il regista, fino a un finale, prevedibile, dove ai protagonisti del film va a contrapporre i personaggi reali, sopravvissuti al terrore, esorcizzato poi l'anno successivo ripercorrendo i luoghi delle due bombe o, in molti casi, e non senza qualche crollo psicologico, partecipando personalmente alla nuova Maratona. Testimonianze attraverso le quali cerca di fare emergere intensamente la determinazione e l'unione di una cittadina (e di un paese) che non intende avere paura, che senza essere arrogante ha imparato a fare i conti con la vulnerabilità che non conosceva e sotto la quale tuttavia non intende sopperire: da qui la nascita dello slogan Boston Strongs, coniato ufficialmente a vicenda archiviata, oggi simbolo definitivo di una intera comunità.

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