Sovrastante, imponente.
Si spengono le luci e subito “Blade Runner 2049” ti investe, ti circonda, ti avvolge. Lo fa attraverso un’estetica e un suono tecnicamente straordinari, impeccabili, caratteristiche fondamentali e salvifiche che accompagneranno la pellicola di Denis Villeneuve per tutto il suo percorso.
Termine pellicola che in questo caso non è usato a casaccio, perché sarebbe stato più coerente dire prosecuzione: la prosecuzione del capolavoro di Ridley Scott ad opera del regista canadese Denis Villeneuve. Espressione però che sarebbe stata corretta solo in parte, solo in teoria, diciamo, non in pratica. Perché questo nuovo Blade Runner, in realtà, è un corpo estraneo rispetto all'originale, ne amplifica il mondo, la storia, persino la forza e l’umanità quando si parla di replicanti, ma senza mai riuscire a centrare davvero la semplicità dello spirito e della complessità che contribuivano a rendere il lavoro di Scott quel noir fantascientifico e affascinante, capace di far battere il cuore, che in fondo poi era. Colpisce maggiormente per la sua confezione allora “Blade Runner 2049”, per la fotografia immensa di Roger Deakins e per gli scenari apocalittici, spesso rarefatti, che rubano scena e appeal a un Ryan Gosling onnipresente, ma meno carismatico nel dominare la macchina da presa in confronto all’animale che era (ed è ancora) Harrison Ford: e a nulla possono centrare dettagli sulla trama che non ci teniamo a svelare per – come lo stesso regista del film ha detto – non rovinare a nessuno l’esperienza integra del film. Un film, peraltro, ambiziosissimo, che non dimentica da dove viene, che ricalca con tratto accorto e pesante quel futuro decadente e immaginifico, rivoluzionario e indimenticato, ma che rinuncia, con sorpresa, ad accentuare lo sguardo verso il discorso filosofico - punto cardine in passato - che esaminava attentamente il concetto di essere umano contrapponendolo al suo alter-ego artificiale, progettato schiavo, ma evoluto abbastanza da mettere in discussione il proprio ruolo.
Un ruolo che in questa versione 2.0 inevitabilmente, con gli anni, ha subito variazioni, è mutato, si è affinato, raggiungendo, forse, anche traguardi che non ci si aspettava potesse raggiungere. Discorso che esplicitamente Villeneuve non prende mai di petto e a muso duro, nonostante le potenzialità e le ripercussioni positive, oggettive, che ciò avrebbe potuto portare al suo film, il quale ogni tanto da l'impressione, addirittura, di trascinare - nascosti dentro - sottotesti facili da cogliere e attinenti alla cronaca recente, che tuttavia preferisce sempre più insinuare che aggredire. Come se ciò volesse dire, per il regista, uscire troppo dal suo ruolo, come se consapevole che il suo scopo non fosse quello di prendere decisioni, ma di eseguire gli ordini senza andare fuori dalle righe: quelle rette e pulite che percorre con diligenza e impegno, incurante di una passione emotiva che non cresce mai nello spettatore.
Tant'è che a un certo punto, vista la dose massiccia di investigazione e mistero a cui la pellicola si dedica, il dubbio è che, magari, una personalità come quella di David Fincher sarebbe potuta essere assai più funzionale alla causa, o perlomeno più adeguata a maneggiare la tensione e l'oscurità che lentamente pervadono le indagini faticose e ingarbugliate dell'agente Gosling - dove peraltro qualche involontaria evocazione a "Zodiac", in più di una circostanza, pare farsi sentire netta.
Senza fiato, quindi, questo "Blade Runner 2049" ti ci lascia solo quando gli è concesso fare quel che è nelle sue corde, ovvero giocare col digitale, con l'estetica, i colori, i suoni: neanche fosse uno di quei Nexus, vecchia generazione, che provavano ad affermarsi umani, tradendosi non appena ostentavano a empatizzare. Gli manca il fremito al prodotto di Villeneuve, un particolare non di poco conto che gli impedisce di sostenere le sue quasi tre ore di durata (mezz'ora in meno era ossigeno puro) e di mischiarsi - come bene fanno i replicanti new-generation del suo film - pelle a pelle col capostipite da cui deriva.
Questo sebbene sia abilissimo a tutelarsi da disastrosi schianti, per nulla scontati da evitare.
Trailer:
Si spengono le luci e subito “Blade Runner 2049” ti investe, ti circonda, ti avvolge. Lo fa attraverso un’estetica e un suono tecnicamente straordinari, impeccabili, caratteristiche fondamentali e salvifiche che accompagneranno la pellicola di Denis Villeneuve per tutto il suo percorso.
Termine pellicola che in questo caso non è usato a casaccio, perché sarebbe stato più coerente dire prosecuzione: la prosecuzione del capolavoro di Ridley Scott ad opera del regista canadese Denis Villeneuve. Espressione però che sarebbe stata corretta solo in parte, solo in teoria, diciamo, non in pratica. Perché questo nuovo Blade Runner, in realtà, è un corpo estraneo rispetto all'originale, ne amplifica il mondo, la storia, persino la forza e l’umanità quando si parla di replicanti, ma senza mai riuscire a centrare davvero la semplicità dello spirito e della complessità che contribuivano a rendere il lavoro di Scott quel noir fantascientifico e affascinante, capace di far battere il cuore, che in fondo poi era. Colpisce maggiormente per la sua confezione allora “Blade Runner 2049”, per la fotografia immensa di Roger Deakins e per gli scenari apocalittici, spesso rarefatti, che rubano scena e appeal a un Ryan Gosling onnipresente, ma meno carismatico nel dominare la macchina da presa in confronto all’animale che era (ed è ancora) Harrison Ford: e a nulla possono centrare dettagli sulla trama che non ci teniamo a svelare per – come lo stesso regista del film ha detto – non rovinare a nessuno l’esperienza integra del film. Un film, peraltro, ambiziosissimo, che non dimentica da dove viene, che ricalca con tratto accorto e pesante quel futuro decadente e immaginifico, rivoluzionario e indimenticato, ma che rinuncia, con sorpresa, ad accentuare lo sguardo verso il discorso filosofico - punto cardine in passato - che esaminava attentamente il concetto di essere umano contrapponendolo al suo alter-ego artificiale, progettato schiavo, ma evoluto abbastanza da mettere in discussione il proprio ruolo.
Un ruolo che in questa versione 2.0 inevitabilmente, con gli anni, ha subito variazioni, è mutato, si è affinato, raggiungendo, forse, anche traguardi che non ci si aspettava potesse raggiungere. Discorso che esplicitamente Villeneuve non prende mai di petto e a muso duro, nonostante le potenzialità e le ripercussioni positive, oggettive, che ciò avrebbe potuto portare al suo film, il quale ogni tanto da l'impressione, addirittura, di trascinare - nascosti dentro - sottotesti facili da cogliere e attinenti alla cronaca recente, che tuttavia preferisce sempre più insinuare che aggredire. Come se ciò volesse dire, per il regista, uscire troppo dal suo ruolo, come se consapevole che il suo scopo non fosse quello di prendere decisioni, ma di eseguire gli ordini senza andare fuori dalle righe: quelle rette e pulite che percorre con diligenza e impegno, incurante di una passione emotiva che non cresce mai nello spettatore.
Tant'è che a un certo punto, vista la dose massiccia di investigazione e mistero a cui la pellicola si dedica, il dubbio è che, magari, una personalità come quella di David Fincher sarebbe potuta essere assai più funzionale alla causa, o perlomeno più adeguata a maneggiare la tensione e l'oscurità che lentamente pervadono le indagini faticose e ingarbugliate dell'agente Gosling - dove peraltro qualche involontaria evocazione a "Zodiac", in più di una circostanza, pare farsi sentire netta.
Senza fiato, quindi, questo "Blade Runner 2049" ti ci lascia solo quando gli è concesso fare quel che è nelle sue corde, ovvero giocare col digitale, con l'estetica, i colori, i suoni: neanche fosse uno di quei Nexus, vecchia generazione, che provavano ad affermarsi umani, tradendosi non appena ostentavano a empatizzare. Gli manca il fremito al prodotto di Villeneuve, un particolare non di poco conto che gli impedisce di sostenere le sue quasi tre ore di durata (mezz'ora in meno era ossigeno puro) e di mischiarsi - come bene fanno i replicanti new-generation del suo film - pelle a pelle col capostipite da cui deriva.
Questo sebbene sia abilissimo a tutelarsi da disastrosi schianti, per nulla scontati da evitare.
Trailer:
no, ecco, io ero assolutamente pro questo film, assolutamente, ma se leggo che c'è un riferimento a "Zodiac", un film che mi ha annoiata enormemente, e che ho vissuto come un male che non so spiegare, allora mi blocco e non so se cedere alla tentazione
RispondiEliminaCiao Patalice, il riferimento è puramente atmosferico e soggettivo, credo che sia stato solo io a percepire una cosa del genere (o comunque pochissimi altri). Per quanto riguarda la noia io un po' l'ho sentita anche qui, ma, ripeto, molte sensazioni sono soggettive.
Elimina