Alzi la mano chi, se sapesse con certezza di non rischiare nulla, domani non vorrebbe andare in ufficio e dire al proprio Capo (o a chi gli pare) ciò che pensa veramente di lui.
Non posso vedervi, quindi devo fidarmi.
Alzi la mano adesso chi, sempre sapendo di non rischiare nulla, domani non vorrebbe andare in ufficio e dire al proprio Capo (o a chi gli pare) ciò che pensa veramente di lui, mentre violentemente gli si scaglia contro, picchiandolo a sangue.
Non posso vedervi ancora, ma secondo me siete molti più di prima.
Il fatto è che non è una notizia ammettere che viviamo in un momento storico in cui a lavoro - a meno che non ricopriate posti di alto rango - bisogna abbozzare, accontentarsi di essere pagati poco e male, sgobbando il doppio, senza neppure, magari, sperare in una carriera futura degna dei sacrifici compiuti. E questo mentre, senza tregua, veniamo vessati da superiori, mega-Boss o dirigenti che non vedono l’ora di migliorare il loro status attraverso il nostro palese sfruttamento: destinato a terminare, probabilmente, tramite un calcio in culo improvviso verso la porta d’uscita, nell'istante in cui i nostri servigi non saranno più utili o richiesti dall'azienda. Scenario assai simile a quello che capita - lontano ormai dall'apocalisse di “The Walking Dead" - a Steven Yeun, licenziato dai piani alti per parare il sedere a qualcuno più importante di lui, esattamente qualche minuto dopo essersi comportato da pezzo di merda con una cliente in cerca d'aiuto, per salvaguardare la faccia dei suoi responsabili colpevoli dell’ennesima disonestà egoistica e capitalista. Peccato che, rispetto alla posizione comune di ognuno di noi, Yeun ha la fortuna di vivere in una realtà distopica, dove da qualche tempo gira un potente virus che - se innescato - induce l’essere umano ad agire d’istinto, a perdere ogni freno inibitorio e ad ampliare rabbia, cattiveria e nevrosi: portando di conseguenza, il più delle volte, a fare del male in proporzioni gravissime.
Con l’aggravante, tra l'altro, di un precedente - un caso processuale avvenuto in passato, affidato alla compagnia di avvocati di Yeun e risolto da lui in prima persona – che praticamente sentenzia che durante lo sfogo del virus e il suo contenimento - per il quale servono otto ore di tempo - nessuno può muoversi dall'area messa in quarantena e nessuno sarà giudicato colpevole penalmente dei potenziali reati commessi (per una sorta di incapacità di intendere e di volere).
Capite facilmente, quindi, che il “Mayhem” di Joe Lynch nasce per palesarsi a noi spettatori un po’ come una catarsi, come una droga psichedelica capace di pompare adrenalina, provocare eccitazione e voglia di riscatto, facendoci sentire, oltre che meno soli, la testuggine di quella rivoluzione che abbiamo in testa, ma a cui manca la scintilla di follia per deflagrare e farsi ascoltare. Tutto il contrario, insomma e per fortuna, di quello che accade al personaggio di Yeun e a colei che - a un certo punto, e cioè quando questo famoso virus invade lo stabile in cui si trovano - diventa la sua partner di botte e di vendetta (e di sesso): una Samara Weaving (nipote di Hugo, l’Agente Smith di “Matrix”) bravissima, letale e tremendamente sensuale. Saranno loro, infatti, - vittime di una follia che vale la pena cavalcare forte - che armati di pistola spara-chiodi, pinze, martelli e altri oggetti di recupero andranno a scalare i piani del grosso palazzo blindato, trasudante ira, per affrontare uno dopo l’altro i componenti di quella piramide di potere che, come nei videogiochi, più converge verso la punta e più va a complicarsi negli ostacoli a cui far fronte: aumentando di difficoltà e di rischio.
A venirne fuori è uno spettacolo d’intrattenimento vorace, intelligente e privo di qualunque filtro anti-violenza. Una commedia-grottesca che nella sua leggerezza e voglia di divertire (e divertirsi) porta con sé un messaggio bellissimo legato alla nostra libertà e al nostro stare bene, ultimamente forse represso o messo troppo spesso, da molti, in secondo piano.
Trailer:
Non posso vedervi, quindi devo fidarmi.
Alzi la mano adesso chi, sempre sapendo di non rischiare nulla, domani non vorrebbe andare in ufficio e dire al proprio Capo (o a chi gli pare) ciò che pensa veramente di lui, mentre violentemente gli si scaglia contro, picchiandolo a sangue.
Non posso vedervi ancora, ma secondo me siete molti più di prima.
Il fatto è che non è una notizia ammettere che viviamo in un momento storico in cui a lavoro - a meno che non ricopriate posti di alto rango - bisogna abbozzare, accontentarsi di essere pagati poco e male, sgobbando il doppio, senza neppure, magari, sperare in una carriera futura degna dei sacrifici compiuti. E questo mentre, senza tregua, veniamo vessati da superiori, mega-Boss o dirigenti che non vedono l’ora di migliorare il loro status attraverso il nostro palese sfruttamento: destinato a terminare, probabilmente, tramite un calcio in culo improvviso verso la porta d’uscita, nell'istante in cui i nostri servigi non saranno più utili o richiesti dall'azienda. Scenario assai simile a quello che capita - lontano ormai dall'apocalisse di “The Walking Dead" - a Steven Yeun, licenziato dai piani alti per parare il sedere a qualcuno più importante di lui, esattamente qualche minuto dopo essersi comportato da pezzo di merda con una cliente in cerca d'aiuto, per salvaguardare la faccia dei suoi responsabili colpevoli dell’ennesima disonestà egoistica e capitalista. Peccato che, rispetto alla posizione comune di ognuno di noi, Yeun ha la fortuna di vivere in una realtà distopica, dove da qualche tempo gira un potente virus che - se innescato - induce l’essere umano ad agire d’istinto, a perdere ogni freno inibitorio e ad ampliare rabbia, cattiveria e nevrosi: portando di conseguenza, il più delle volte, a fare del male in proporzioni gravissime.
Con l’aggravante, tra l'altro, di un precedente - un caso processuale avvenuto in passato, affidato alla compagnia di avvocati di Yeun e risolto da lui in prima persona – che praticamente sentenzia che durante lo sfogo del virus e il suo contenimento - per il quale servono otto ore di tempo - nessuno può muoversi dall'area messa in quarantena e nessuno sarà giudicato colpevole penalmente dei potenziali reati commessi (per una sorta di incapacità di intendere e di volere).
Capite facilmente, quindi, che il “Mayhem” di Joe Lynch nasce per palesarsi a noi spettatori un po’ come una catarsi, come una droga psichedelica capace di pompare adrenalina, provocare eccitazione e voglia di riscatto, facendoci sentire, oltre che meno soli, la testuggine di quella rivoluzione che abbiamo in testa, ma a cui manca la scintilla di follia per deflagrare e farsi ascoltare. Tutto il contrario, insomma e per fortuna, di quello che accade al personaggio di Yeun e a colei che - a un certo punto, e cioè quando questo famoso virus invade lo stabile in cui si trovano - diventa la sua partner di botte e di vendetta (e di sesso): una Samara Weaving (nipote di Hugo, l’Agente Smith di “Matrix”) bravissima, letale e tremendamente sensuale. Saranno loro, infatti, - vittime di una follia che vale la pena cavalcare forte - che armati di pistola spara-chiodi, pinze, martelli e altri oggetti di recupero andranno a scalare i piani del grosso palazzo blindato, trasudante ira, per affrontare uno dopo l’altro i componenti di quella piramide di potere che, come nei videogiochi, più converge verso la punta e più va a complicarsi negli ostacoli a cui far fronte: aumentando di difficoltà e di rischio.
A venirne fuori è uno spettacolo d’intrattenimento vorace, intelligente e privo di qualunque filtro anti-violenza. Una commedia-grottesca che nella sua leggerezza e voglia di divertire (e divertirsi) porta con sé un messaggio bellissimo legato alla nostra libertà e al nostro stare bene, ultimamente forse represso o messo troppo spesso, da molti, in secondo piano.
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