Tully - La Recensione

Tully Charlize Theron
C’è una Charlize Theron sovrappeso e per nulla attraente in “Tully”. Una Charlize Theron che la guardi e – a prescindere se sei uomo o donna – cominci a chiederti il perché: perché è così sciatta; perché è così poco curata; eppure non siamo mica in “Monster”, le basterebbe pochissimo per sistemarsi (nonostante le sue condizioni). Non ci rendiamo (ancora) conto che, in realtà, quella che stiamo seguendo è una donna alla deriva, una madre di due bambini - incinta del terzo - stanca e volontariamente disinteressata a piacere perché totalmente travolta dal ruolo e dalla routine di madre e di moglie modello. Una donna sposata con un marito ormai più simile a suo fratello; alle prese con un secondogenito cui dire problematico è dire niente e prossima solo a peggiorare la sua situazione.

Ecco, allora, come quelle domande apparentemente superficiali, spontanee, concepite all'inizio, una volta chiarito il quadro, cominciano ad assumere nuove forme, a trasformarsi in dettagli da non trascurare, sebbene il tentativo di Jason Reitman di depistarci, facendoci credere che il suo film voglia andare a parare chissà dove, giochi decisamente a nostro sfavore. Esistono due letture, infatti, per decifrare “Tully”, la prima – che nessuno probabilmente seguirà, a meno di suggerimenti conferiti in anticipo – si trova, appunto, nel trucco e nel lavoro (non facile) della Theron: ingrassata per l’occasione, spenta nello sguardo e privata di tutto il suo sex appeal. La seconda è affidata alla classica fruizione dei fatti e all'arrivo della giovane tata notturna – dal nome del titolo – chiamata a prendersi cura della neonata: un talento naturale del mestiere che - neanche avesse una bacchetta magica nella borsa - in brevissimo tempo riesce a rivoluzionare pesantemente la vita di colei che l’aveva ingaggiata, non solo consentendogli di dormire e di staccare un po’ la spina, ma agendo ancor più a fondo, somministrando nuova linfa vitale alla casa, alla quotidianità e, soprattutto, a un desiderio sessuale che all'improvviso torna a vibrare sotto le lenzuola.
Ribaltamento che - messo in questo modo - potrebbe far pensare a "Tully" come a uno sponsor cinematografico per baby-sitter messo lì ad incoraggiarne l’ingaggio o a risaltarne i benefici, ma che serve, al contrario, per preparare il terreno a qualcosa di molto più tetro che nulla ha a che vedere con la suddetta categoria.

Tully Charlize Theron
La terza collaborazione tra Reitman e la sceneggiatrice Diablo Cody, dunque, è forse quella più irregolare e implicita in assoluto; un tantino ostica da assimilare, eppure fisiologicamente coerente e naturale. Perché “Tully”, sotto la patina sempliciotta con cui si trascina, nasconde una profondità velata volta a descrivere - in maniera più nitida di ciò che appare - l’aspetto maggiormente negativo, e quindi trascurato, del diventare madri. Un passaggio descritto spesso come l'apice della gioia e dell'emozione, ma che in una buona dose di soggetti prevede anche il contraccolpo di patologie spinose come la depressione post-parto e l’esaurimento nervoso. Una riflessione sul tema che la pellicola intende divulgare a vari livelli, tenendo conto di una protagonista quarantenne che, magari, immaginava progetti diversi per se stessa, in gioventù, ma che, adesso, inconsciamente, sa benissimo di trovarsi al posto giusto e non voler tornare indietro.

Parliamo quindi di un film (moderatamente) amaro, rigorosamente al femminile, che nel suo compimento e (lieto) fine mantiene salda quella punta di inquietudine che ci fa andare via disorientati e perplessi (ma anche più sapienti). Un film che, forse, doveva puntare – per consacrarsi come si deve - a una chiusura più eclatante e meno ordinaria, all’altezza, almeno, della gigantesca prova esibita da una formidabile Theron.

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