Da qualche anno – ed è un dato oggettivo – la carriera di Gus Van Sant si era un po’ ingolfata. Normalizzata da scelte che, in qualche modo, ne avevano schermato attitudini e personalità – vedi il tiepidino “Promised Land” – e da altre, inspiegabili, che hanno contribuito, forse, a trascinarlo verso quello che potremmo considerare tranquillamente come il punto più basso della sua carriera - in questo caso vedi l'oggetto misterioso “La Foresta Dei Sogni” - .
Ecco perché viene quasi da ridere, adesso, nell'accorgersi che, per provare a ripartire, il regista si riaffacci al cinema con una pellicola dal titolo “Don’t Worry” (in originale Don't Worry, He Won't Get Far on Foot), come a voler rassicurare noi e sé stesso di un incidente di percorso, comunque, sotto controllo e in fase di risoluzione.
Incidente che, in modo diverso, sta alla base anche della storia raccontata, ovvero quella reale del vignettista satirico John Callahan, rimasto paralizzato e su sedia a rotelle all’età di 21 anni, per via dei suoi problemi con la droga e con l’alcolismo. Uno di quei traumi che metterebbero sotto a un treno la maggior parte degli esseri umani e che, peggio ancora, rischiano di fare con chi, come lui, aveva passato una vita intera a piangersi addosso, pensando alla madre che lo aveva abbandonato quando era ancora in fasce e alla famiglia adottiva che se ne era preso cura, ma trattandolo ogni volta come qualcuno di speciale e da proteggere. Per Callahan, tuttavia, quell'incidente quasi mortale fu una sorta di rimessa al mondo, una catarsi che probabilmente si era fatta viva per metterlo di fronte a una realtà che aveva sempre preferito non guardare in faccia, la stessa che adesso lo stava spingendo a sedersi in cerchio con degli estranei per affrontare i (faticosi) dodici passi richiesti dall'associazione degli Alcolisti Anonimi e che, nel frattempo, lo premiava facendogli (ri)scoprire la sua vena satirica, con la quale abbozzare le prime vignette politicamente scorrette, più avanti richieste e pubblicate da alcuni dei giornali più famosi.
La reazione, quindi.
Deve essere stato questo il principale stimolo che ha condotto Van Sant a occuparsi di Callahan e della sua parabola. Una reazione non comune, lastricata di ostacoli, di ricadute e abbattimenti, ma rivitalizzata costantemente da un senso dell'umorismo implacabile e affilato e da un gruppo di partner - in condizioni non migliori di lui - disposti a stargli accanto, a dargli forza e a sorreggerlo a qualunque costo. Per cui è inevitabile - poste tali condizioni - che senza neppure accorgersene, alla fine, in “Don’t Worry” ci si allarghi andando a parlare di vita, anzi, della vita. E non tanto nel senso filosofico del termine, quanto in quello più spiccio, toccando argomenti come la religione - o la fede-tutta - piuttosto che l’accettazione dei nostri limiti, comprese le difficoltà a perdonare e a perdonarci, che spesso sono le prime responsabili del malessere che ci trasciniamo dietro.
Allora Van Sant - che per fortuna, come Callahan, è intenzionato a rimettersi in riga - non deve fare altro che non cedere al patetismo; gestire in maniera posata l'intera parentesi profondamente drammatica del suo film, lasciando, infine, che la vitalità cominci a farsi largo regolare, nella fase di rinascita e di coscienza del suo protagonista (un Joaquin Phoenix fantastico). Un compito che al regista riesce benissimo e che consente a “Don’t Worry” di farsi, per lui, quel passo in avanti che in molti stavamo aspettando.
Trailer:
Ecco perché viene quasi da ridere, adesso, nell'accorgersi che, per provare a ripartire, il regista si riaffacci al cinema con una pellicola dal titolo “Don’t Worry” (in originale Don't Worry, He Won't Get Far on Foot), come a voler rassicurare noi e sé stesso di un incidente di percorso, comunque, sotto controllo e in fase di risoluzione.
Incidente che, in modo diverso, sta alla base anche della storia raccontata, ovvero quella reale del vignettista satirico John Callahan, rimasto paralizzato e su sedia a rotelle all’età di 21 anni, per via dei suoi problemi con la droga e con l’alcolismo. Uno di quei traumi che metterebbero sotto a un treno la maggior parte degli esseri umani e che, peggio ancora, rischiano di fare con chi, come lui, aveva passato una vita intera a piangersi addosso, pensando alla madre che lo aveva abbandonato quando era ancora in fasce e alla famiglia adottiva che se ne era preso cura, ma trattandolo ogni volta come qualcuno di speciale e da proteggere. Per Callahan, tuttavia, quell'incidente quasi mortale fu una sorta di rimessa al mondo, una catarsi che probabilmente si era fatta viva per metterlo di fronte a una realtà che aveva sempre preferito non guardare in faccia, la stessa che adesso lo stava spingendo a sedersi in cerchio con degli estranei per affrontare i (faticosi) dodici passi richiesti dall'associazione degli Alcolisti Anonimi e che, nel frattempo, lo premiava facendogli (ri)scoprire la sua vena satirica, con la quale abbozzare le prime vignette politicamente scorrette, più avanti richieste e pubblicate da alcuni dei giornali più famosi.
La reazione, quindi.
Deve essere stato questo il principale stimolo che ha condotto Van Sant a occuparsi di Callahan e della sua parabola. Una reazione non comune, lastricata di ostacoli, di ricadute e abbattimenti, ma rivitalizzata costantemente da un senso dell'umorismo implacabile e affilato e da un gruppo di partner - in condizioni non migliori di lui - disposti a stargli accanto, a dargli forza e a sorreggerlo a qualunque costo. Per cui è inevitabile - poste tali condizioni - che senza neppure accorgersene, alla fine, in “Don’t Worry” ci si allarghi andando a parlare di vita, anzi, della vita. E non tanto nel senso filosofico del termine, quanto in quello più spiccio, toccando argomenti come la religione - o la fede-tutta - piuttosto che l’accettazione dei nostri limiti, comprese le difficoltà a perdonare e a perdonarci, che spesso sono le prime responsabili del malessere che ci trasciniamo dietro.
Allora Van Sant - che per fortuna, come Callahan, è intenzionato a rimettersi in riga - non deve fare altro che non cedere al patetismo; gestire in maniera posata l'intera parentesi profondamente drammatica del suo film, lasciando, infine, che la vitalità cominci a farsi largo regolare, nella fase di rinascita e di coscienza del suo protagonista (un Joaquin Phoenix fantastico). Un compito che al regista riesce benissimo e che consente a “Don’t Worry” di farsi, per lui, quel passo in avanti che in molti stavamo aspettando.
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