C’è un momento in “Mission: Impossible – Fallout” in cui a Ethan Hunt – il personaggio interpretato da Tom Cruise – viene spiegato il motivo per cui, la maggior parte dei servizi segreti, a un certo punto, lo considera un traditore. In sostanza - gli dicono - la causa è legata ai suoi comportamenti (passati) ribelli che, con il tempo, lo hanno reso in pratica nemico di sé stesso.
Un discorso che può essere tranquillamente preso e rifatto in relazione alla saga di Mission: Impossible, la quale, a ogni episodio, deve guardare al precedente - appunto - come fosse un nemico di sé stesso, una minaccia da sconfiggere e da superare.
Impresa possibile solamente alzando, di volta in volta, l’asticella di spettacolarità.
Il problema è che intanto gli anni avanzano e Cruise - che, se non fosse ancora chiaro, è Mission: Impossible – per quanto di buona volontà ne abbia tanta, e ami mettercela tutta, non può muoversi ogni volta come se ciò non accadesse, o se madre-natura l’avesse graziato. Ecco perché – ci abbiate fatto caso, o meno – negli ultimi anni il suo franchise ha dovuto subire delle variazioni, reinventarsi: sempre e fortunatamente con l’intelligenza di chi era al corrente di come preservarlo. A cambiare è stata l’azione, fondamentalmente, quella che prima era spalmata in maniera omogenea per tutta la durata della storia e che adesso, invece, viene concentrata in dei punti cardine: sequenze memorabili che più che stimolare il fomento e l’adrenalina - come in principio - mettono lo spettatore in stato di altissima tensione e di ansia. Questo processo, questo cambiamento, in “Mission: Impossibile - Fallout” arriva, forse, a toccare quota 100%, finalizzando, così, una rivoluzione che può permettergli di andare avanti sereno per qualche altro anno. Lo fa attraverso una storia di spionaggio densissima e cupa, che mette da parte l’intrattenimento grossolano, perpetuo e gratuito (tipico dei blockbuster moderni) per favorirne un secondo - migliore – più oculato, studiato e (parzialmente) verosimile. Una storia fatta di doppi, tripli, quadrupli giochi e di tante teste pronte a sovrastarsi, allearsi e a colpirsi l'una con l'altra: esattamente come le origini del mito insegnano ed il genere vorrebbe.
Un discorso che può essere tranquillamente preso e rifatto in relazione alla saga di Mission: Impossible, la quale, a ogni episodio, deve guardare al precedente - appunto - come fosse un nemico di sé stesso, una minaccia da sconfiggere e da superare.
Impresa possibile solamente alzando, di volta in volta, l’asticella di spettacolarità.
Il problema è che intanto gli anni avanzano e Cruise - che, se non fosse ancora chiaro, è Mission: Impossible – per quanto di buona volontà ne abbia tanta, e ami mettercela tutta, non può muoversi ogni volta come se ciò non accadesse, o se madre-natura l’avesse graziato. Ecco perché – ci abbiate fatto caso, o meno – negli ultimi anni il suo franchise ha dovuto subire delle variazioni, reinventarsi: sempre e fortunatamente con l’intelligenza di chi era al corrente di come preservarlo. A cambiare è stata l’azione, fondamentalmente, quella che prima era spalmata in maniera omogenea per tutta la durata della storia e che adesso, invece, viene concentrata in dei punti cardine: sequenze memorabili che più che stimolare il fomento e l’adrenalina - come in principio - mettono lo spettatore in stato di altissima tensione e di ansia. Questo processo, questo cambiamento, in “Mission: Impossibile - Fallout” arriva, forse, a toccare quota 100%, finalizzando, così, una rivoluzione che può permettergli di andare avanti sereno per qualche altro anno. Lo fa attraverso una storia di spionaggio densissima e cupa, che mette da parte l’intrattenimento grossolano, perpetuo e gratuito (tipico dei blockbuster moderni) per favorirne un secondo - migliore – più oculato, studiato e (parzialmente) verosimile. Una storia fatta di doppi, tripli, quadrupli giochi e di tante teste pronte a sovrastarsi, allearsi e a colpirsi l'una con l'altra: esattamente come le origini del mito insegnano ed il genere vorrebbe.
Mettersi lì, allora, a misurare se ci troviamo di fronte al capitolo migliore o peggiore del precedente, è un passatempo inutile e superficiale, perché il dato di fatto è che “Mission: Impossibile – Fallout” è il miglior capitolo della saga possibile oggi. Il merito - oltre che della testardaggine di Cruise - è del regista (e sceneggiatore) Christopher McQuarrie che, ereditato il prodotto (è il primo in assoluto ad aver diretto due capitoli), ha saputo leggerne attentamente potenzialità e rischi, riuscendo a comprendere come e dove c’era da mettere le mani.
Non sorprende, quindi, rivedere ancora un villain da brividi come quello di Sean Harris, simbolo (con Rebecca Ferguson) di una continuità mai così robusta e lineare che non smette, però, anche di arricchirsi di nuovi e intriganti personaggi: come l’agente-che-mena-come-un-fabbro, interpretato da Henry Cavill. Ne tantomeno sorprende – fino a che non lo si vede coi propri occhi, almeno – assistere a Cruise che rilancia la sfida alla sua follia aggrappandosi a un elicottero in fase di decollo, dando vita a un’ultima mezz'ora clamorosa, tosta ed estremamente mozzafiato (e da quel che si dice non c'erano controfigure).
Poi, vabbè, qualcuno potrebbe minimizzare il tutto esclamando (e lo diranno, fidatevi): "Il solito!". Che sarebbe giusto, se non fosse che quel solito è un solito per nulla scontato; che può restare tale solo se dietro di lui c’è un appoggio pregiato e onesto, come quello di una famiglia: quella unita e compatta che, da decenni, ce la mette tutta per tenere alto il marchio dell'action più prolifico, e qualitativamente elevato che si ricordi.
La stessa famiglia, insomma, che proprio “Mission: Impossibile – Fallout” - per riconoscenza, magari - nel suo piccolo sceglie, infine, di proteggere e di valorizzare.
Trailer:
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