Il termine credibile, sia messo agli atti, è da interpretare chiaramente in maniera alquanto eufemistica: perché lo sanno persino i bambini che negli heist movie la logica è costretta a fare sempre uno o due passi indietro. Il problema è quando però decidi di non considerarla proprio questa logica; di non considerare l'intelligenza media - non altissima, media - dello spettatore, servendogli un prodotto che - in sostanza – mira, si, allo spettacolo e all'intrattenimento, ma si dimentica che per non far crollare il tutto c'è bisogno necessariamente di una base minima in grado di poterli sostenere. Ecco, questa base minima in "Ocean's 8" è assolutamente assente, trascurata; con il regista Gary Ross impegnato più a ricalcare lo scheletro da cui prende spunto, che a rendere credibile quel gioco furbo e smaliziato che, quando si parla di truffatori e piani impossibili, ci si aspetta, ogni volta, sia stracolmo di colpi di scena, illusionismo e inganni. Tutte carte che Soderbergh – prima ancora di proteggersi con dei nomi giganteschi – aveva considerato di inserire accuratamente nel mazzo, realizzando, non a caso, un lavoro bilanciatissimo, degno del successo che gli ha permesso, poi di generare i due sequel (e questo spin-off).

Una provocazione che ci sta, anzi, che deve esserci e da leggere – vuoi o non vuoi - con molteplici significati, ma che rischia di diventare un autogol clamoroso se, per renderla vincente, è vitale far comportare l’uomo come fosse il ritardato mentale che un istante prima non era.
Tuttavia viene da pensare che, in preda alla sua frivolezza, neppure se ne renda conto, Ross, dello screditamento che va a commettere nei confronti del girl power, il quale è solamente l'ultima goccia all'interno di un vaso già traboccante e crepato che, per non essere notato, ha bisogno di essere visto distrattamente e, magari, con un qualcuno vicino propenso a buttare la serata in caciara.
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