Per tutti – e per me, anche – Rowan Atkinson sarà sempre Mr. Bean.
Lo so, è riduttivo come riferimento, screditante, forse: specie per un attore che ha dimostrato – in più di un’occasione – di essere eclettico e trasversale, non solo, quindi, maschera di un personaggio imbranato, capace di conquistarsi le risate e l’affetto di grandi e piccini tramite maldestre avventure inebriate da una comicità slapstick praticamente esemplare. Però, si sa, il pubblico spesso sa essere delizia come croce, è sovrano, e può orientare scelte artistiche e decisioni pur non entrandone mai nel merito. Ecco perché, nonostante l’addio (ufficiale) di Atkinson a Mr. Bean, in giro c’è ancora traccia di quello che, a tutti gli effetti, è il suo fratellastro.
Vuoi o non vuoi, del resto, è così. È inutile girarci intorno: Johnny English è un Mr. Bean prestato ai Servizi Segreti della Regina. Parla, è vero, si sforza - quanto più gli riesce possibile - di apparire sveglio, scaltro, addestrato, ma andando a stringere, le due entità, non sono poi tanto lontane quanto l’apparenza vorrebbe. Un po’ come accade con Clark Kent e Superman, allora, a confondere il riconoscimento dei due sono gli occhiali, il vestito e la pettinatura; piccolezze che svaniscono non appena l’azione (o la gag) entra nel vivo e il ridicolo inevitabilmente la segue a ruota sgonfiando qualunque proposito di serietà e testosterone. Canovaccio atteso, consumato, ma che funziona e che Atkinson dimostra di sapere indossare con il solito smalto e senza il minimo scricchiolio o ruggine di fondo dovuta all'età, trovando il modo di strappare risate e risatine che, in rare occasioni, riescono addirittura a toccare apici insperati, facendo uscire letteralmente le lacrime a chi sta guardando (la geniale sequenza sulla realtà virtuale vale, da sola, il prezzo del biglietto). Cioè quei spettatori che, consapevoli di trovarsi al cospetto di una commedia altamente demenziale, non faranno fatica a chiudere più di un occhio nei confronti di una trama spy-story cucita alla buona, a cui sicuramente interessa zero sia la coerenza narrativa, che il conseguimento di eventuali colpi di scena.
Che poi non è che a "Johnny English Colpisce Ancora" non interessa nient'altro che la battuta o lo sketch, sia chiaro. Quelli sono i capisaldi da cui prende l'energia che lo fa muovere. Però nella sceneggiatura scritta da William Davies e diretta da David Kerr esiste pure - marcato a dovere - un superficiale inno all'old school che volta orgogliosamente le spalle alla tecnologia moderna e alle sue conseguenze: che sono, tra l'altro, le responsabili principali che costringono English a tornare sul campo e a mettere in pausa la sua attività di insegnante scolastico per ragazzini. Il vecchio e il nuovo; l'analogico e il digitale; Steve Jobs e Lancillotto. Opposti messi a confronto per dire, in sostanza, che, probabilmente, si stava più tranquilli prima: quando internet, i numeri e gli algoritmi non influenzavano il benessere e le decisioni di un singolo come di un paese; quando le macchine ruggivano libere dalle centraline, i cellulari non erano un pericolo alla privacy e per difendere il governo di un paese era indispensabile (o sufficiente, come preferite) avere un'arma.
Si tratta di considerazioni frivole, per carità, di cui una pellicola come questa si serve più per esistere che per idealismo o reale approfondimento. Eppure tra uno yacht milionario e un sottomarino anni ’80, la tentazione spingerebbe a salire sul secondo, e ugual discorso si potrebbe fare dovendo scegliere tra un sistema di sicurezza di ultima generazione, gestito da uno smartphone, o uno classico con un Cavaliere senza macchia e senza paura a fare da scudo.
Impersonato, se possibile, da uno degli alter ego di Atkinson, armato di spada.
Trailer:
Lo so, è riduttivo come riferimento, screditante, forse: specie per un attore che ha dimostrato – in più di un’occasione – di essere eclettico e trasversale, non solo, quindi, maschera di un personaggio imbranato, capace di conquistarsi le risate e l’affetto di grandi e piccini tramite maldestre avventure inebriate da una comicità slapstick praticamente esemplare. Però, si sa, il pubblico spesso sa essere delizia come croce, è sovrano, e può orientare scelte artistiche e decisioni pur non entrandone mai nel merito. Ecco perché, nonostante l’addio (ufficiale) di Atkinson a Mr. Bean, in giro c’è ancora traccia di quello che, a tutti gli effetti, è il suo fratellastro.
Vuoi o non vuoi, del resto, è così. È inutile girarci intorno: Johnny English è un Mr. Bean prestato ai Servizi Segreti della Regina. Parla, è vero, si sforza - quanto più gli riesce possibile - di apparire sveglio, scaltro, addestrato, ma andando a stringere, le due entità, non sono poi tanto lontane quanto l’apparenza vorrebbe. Un po’ come accade con Clark Kent e Superman, allora, a confondere il riconoscimento dei due sono gli occhiali, il vestito e la pettinatura; piccolezze che svaniscono non appena l’azione (o la gag) entra nel vivo e il ridicolo inevitabilmente la segue a ruota sgonfiando qualunque proposito di serietà e testosterone. Canovaccio atteso, consumato, ma che funziona e che Atkinson dimostra di sapere indossare con il solito smalto e senza il minimo scricchiolio o ruggine di fondo dovuta all'età, trovando il modo di strappare risate e risatine che, in rare occasioni, riescono addirittura a toccare apici insperati, facendo uscire letteralmente le lacrime a chi sta guardando (la geniale sequenza sulla realtà virtuale vale, da sola, il prezzo del biglietto). Cioè quei spettatori che, consapevoli di trovarsi al cospetto di una commedia altamente demenziale, non faranno fatica a chiudere più di un occhio nei confronti di una trama spy-story cucita alla buona, a cui sicuramente interessa zero sia la coerenza narrativa, che il conseguimento di eventuali colpi di scena.
Che poi non è che a "Johnny English Colpisce Ancora" non interessa nient'altro che la battuta o lo sketch, sia chiaro. Quelli sono i capisaldi da cui prende l'energia che lo fa muovere. Però nella sceneggiatura scritta da William Davies e diretta da David Kerr esiste pure - marcato a dovere - un superficiale inno all'old school che volta orgogliosamente le spalle alla tecnologia moderna e alle sue conseguenze: che sono, tra l'altro, le responsabili principali che costringono English a tornare sul campo e a mettere in pausa la sua attività di insegnante scolastico per ragazzini. Il vecchio e il nuovo; l'analogico e il digitale; Steve Jobs e Lancillotto. Opposti messi a confronto per dire, in sostanza, che, probabilmente, si stava più tranquilli prima: quando internet, i numeri e gli algoritmi non influenzavano il benessere e le decisioni di un singolo come di un paese; quando le macchine ruggivano libere dalle centraline, i cellulari non erano un pericolo alla privacy e per difendere il governo di un paese era indispensabile (o sufficiente, come preferite) avere un'arma.
Si tratta di considerazioni frivole, per carità, di cui una pellicola come questa si serve più per esistere che per idealismo o reale approfondimento. Eppure tra uno yacht milionario e un sottomarino anni ’80, la tentazione spingerebbe a salire sul secondo, e ugual discorso si potrebbe fare dovendo scegliere tra un sistema di sicurezza di ultima generazione, gestito da uno smartphone, o uno classico con un Cavaliere senza macchia e senza paura a fare da scudo.
Impersonato, se possibile, da uno degli alter ego di Atkinson, armato di spada.
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