7 Sconosciuti A El Royale - La Recensione

7 Sconosciuti A El Royale Goddard
Di base Drew Goddard è uno sceneggiatore.
Uno sceneggiatore a cui piace sbalordire, spiazzare, provare a tenere lo spettatore in bilico, sul filo della corda: riempiendolo di colpi di scena, ribaltamenti di fronte e, se il contesto lo permette, tanta, tanta ironia. Una formula che nella stesura di “Cloverfield” appariva già piuttosto evidente, consolidata e messa a fuoco in “Quella Casa Nel Bosco” - suo esordio alla regia e, probabilmente, prodotto che più lo definisce – e diluita, per cause di forza maggiore, nell’adattamento cinematografico del “Sopravvissuto: The Martian”, diretto da Ridley Scott.

Che, però, Goddard fosse un grandissimo fan di Quentin Tarantino, in realtà, lo si era capito di riflesso da tempo; bastava fare attenzione ai dettagli, accorgersi di un certo tipo di manierismo che, specie nei prodotti televisivi che ha curato – vedi la serie “Daredevil” – era piuttosto evidente. Chiuso in gabbia, ma ingombrante. Talmente ingombrante da non meravigliarci se, ora, ha deciso di rompere la cella e appropriarsi violentemente di “7 Sconosciuti A El Royale”. La sua seconda regia, infatti, è a tutti gli effetti la tarantinata che vorresti e non vorresti vedere. Vorresti vederla perché di Tarantino ce n’è uno, purtroppo, e se in sua assenza ci fosse qualcuno capace di prenderne le veci – anche solo avvicinandosi – troppo male, alla fine, non sarebbe. Ma, contemporaneamente, non vorresti vederla perché quando poi ti ricordi che di Tarantino ce n’è uno, appunto, e pure di ardua imitazione, finisci col trovarti di fronte all’ennesimo prodotto che sta lì a scimmiottarlo, infastidendoti sia per l’arroganza, sia perché nulla all’improvviso sembra voler funzionare sullo schermo. Così, dopo un prologo bellissimo e promettente - nel quale cominci a sospettare che, magari, ci sarà da divertirsi - non appena la suddivisione in capitoli inizia a raccontare la storia di questi estranei e oscuri figuri (tutti con identità fittizie e un passato da svelare), capitati per caso in un hotel ambiguo e sinistro - costruito sulla linea di confine tra la California e il Nevada - subito la presa d’attenzione comincia ad allentarsi e a scricchiolare: con la personalità di Goddard che sciogliendosi, lascia spazio all'emulazione di un riferimento che non può permettersi.

7 Sconosciuti A El Royale FilmE dire che, in fondo, le possibilità per non mandare tutto all’aria e tirar fuori qualcosa di interessante la sua (fitta) sceneggiatura ne aveva, eccome. Per accorgersene bisogna aspettare che certi nodi – i più importanti – vengano al pettine, ma è evidente che, in partenza, l’obiettivo massimo di “7 Sconosciuti A El Royale” era ben diverso da quello poi raggiunto. Questo perché nelle pieghe del suo thriller (quasi da camera, o da camere, visto com’è scandito) Goddard aveva seminato una grossa e vivace strizzata d'occhio all’America di Nixon, quella del watergate, della nascita delle sette, dei grandi rapinatori di banche e del razzismo. Un puzzle articolato che, messo ogni pezzo al proprio posto, riesce a fare il suo sporco effetto, a colpire: ma si tratta un colpire tutto logico, razionale, incapace, quindi, di smuovere la più piccola corda emotiva, come anche di inglobare tensione in un terzo atto che - in teoria - avrebbe dovuto avere i muscoli per incollare alla poltrona.

Più fumo che arrosto, insomma.
Splendida confezione (ottima la colonna sonora), ma contenuto non all’altezza.
In quella che poteva essere la sua maggiore possibilità di consacrarsi come autore, Goddard fallisce clamorosamente l'appuntamento: prova a rifare un "The Hateful Eight" che gli sfugge di mano e spreca la forza di un cast notevole, dove Jeff Bridges - immenso come al solito - resta l'unico a uscire incolume.

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