Beautiful Boy - La Recensione

Beautiful Boy Film CarellC’è un padre stremato, seduto di fronte a un medico, che vuole conoscere il nemico di suo figlio, all’inizio di “Beautiful Boy”; saperne di più sulla metanfetamina, la droga che lo ha imprigionato e lo sta cambiando, allontanandolo dagli affetti più cari e presto, forse, dal mondo intero. Un prologo brevissimo, che serve più che altro a mettere le cose in chiaro, prima di tornare un anno indietro e entrare da vicino nel dramma di Nic, quel ragazzo che vorrebbero salvare in tanti – a lottare col padre ci sono madre, matrigna e piccoli fratellastri – e che, invece, di tendere la mano, stringendo forte, si approfitta del loro amore, ricascando sempre nei soliti e pericolosi errori.

Padre e figlio, quindi. 

Due punti di vista che non smetteranno mai di sovrapporsi e di affiancarsi per tutta la durata della pellicola diretta da Felix van Groeningen: tratta da una storia vera e ricostruita tramite l'accorpamento di due libri, quello del giovane Nic Sheff - incentrato sulla lotta tra lui e le droghe – e l’altro scritto da suo padre David - il quale non ha mai mollato la sorte del suo beautiful boy, anche quando ha finto che fosse arrivato il momento di farlo. Colpa della metanfetamina, uno stupefacente che - in rapporto a molta della droga-del-pianeta-tutta - quando attecchisce lo fa per non mollarti più; e più sei fragile dentro, più sarà complicato per chiunque ti verrà incontro – genitori, medici, centri di riabilitazione – aiutarti a rimetterti in sesto e disintossicarti definitivamente. Un concetto che a “Beautiful Boy” ci tiene particolarmente a evidenziare, a drammatizzare, essendo un film che - se ancora non è chiaro - ha come intento basilare quello di sensibilizzare (e informare) lo spettatore sull’argomento, in una maniera forse che va a limitare un po’ la potenza emotiva del materiale che ha tra le mani; e che diventa didascalica nell’istante in cui - prima dei titoli di coda – si lascia andare a numeri e statistiche spaventose che non fanno altro che consacrarne tale scopo.

Beautiful Boy Timothée ChalametPerò.
Però, nonostante gli obiettivi palesemente moralizzatori messi lì a limitarlo, van Groeningen ha dalla sua la fortuna di avere a disposizione due assi nella manica disposti a venirgli in soccorso salvandogli faccia e (parziale) lavoro. Uno si chiama Timothée Chalamet, che, sostanzialmente, fa il suo dovere, mostrando un talento recitativo, magari, non completamente fiorito, ma comunque incisivo e plausibile. Mentre il secondo – che poi è colui a cui vanno riconosciuti elogi maggiori – è Steve Carell, il quale si carica letteralmente la pellicola sulle spalle, attraverso l’ennesima interpretazione magistrale - per lo più in sottrazione - precisa al tal punto che, all'improvviso, vorresti alzarti e andarci tu, lì, ad abbracciarlo e consolarlo per quelle pene che deve subire (e sentire) e che, in realtà, non si merita.
Che poi, se succede questo e si empatizza così, un pizzico di bravura sarebbe giusto restituirlo anche a una regia (e una sceneggiatura) che, perlomeno, conserva il pregio di tenersi alla larga da una retorica nascosta proprio dietro l’angolo; una regia sveglia abbastanza da non andare a forzare la mano, rischiando di guastare un equilibrio presente, ma sul filo del rasoio.

Per quello che è un risultato che, tutto sommato, allora, ci può star bene. 

Probabilmente al di sotto delle aspettative di chi si sperava in un racconto eseguito a regola d’arte, ma di sicuro al di sopra del canonico film-denuncia, assemblato ad hoc per impressionare su un tema.

Trailer:

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