Quando, nella prima scena, appare l’astronave in avaria con su scritto Life Foundation, il pensiero va immediatamente a quei rumors – mai confermati – che un anno fa, circa, ruotavano attorno all'horror di Daniel Espinosa: quel “Life” sul quale, a un certo punto, qualcuno ha iniziato a sospettare potesse essere il prequel silente di “Venom”. Una teoria affascinante, una trovata fuori dagli schemi; sulla quale però la Sony - ammesso e non concesso fosse stata tanata - ha preferito non entrare nel merito, lasciando la questione in mano ai nerd e agli internauti: se non altro per via dello scarso successo riscontrato da quella pellicola, inadeguato a lanciare le sorti di un nuovo franchise sul quale, forse, considerato tutto, sarebbe stato meglio operare in maniera più sicura e ordinaria.
Che poi ordinaria, mica tanto.
Perché il “Venom” di Ruben Fleischer impatta sullo schermo assumendo un’aria da horror puro, un’aria che pensi da un secondo all’altro venga smorzata ironicamente, ritirata, ma che invece per un po’ viene adottata a tempo pieno, come fosse quello il suo genere di riferimento. Una scelta interessante, che farebbe il paio con le dichiarazioni di Tom Hardy quando, in fase di inizio riprese, disse di aver accettato il ruolo di Eddie Brock proprio per via dell’originalità di un progetto di fondo, fuori dalle righe. Ma una scelta, anche, che un prodotto d’intrattenimento, derivato da un cine-comic, non può permettersi di cavalcare troppo a lungo, neppure se alternata da momenti più leggeri e divertenti in cui Hardy – contagiato dal parassita alieno, più comunemente detto simbionte – dialoga e combatte internamente per non perdere il controllo del suo corpo e della sua mente, attirati dal lato oscuro. Ciò che ne viene fuori allora da questo “Venom” è, inevitabilmente, un ibrido a tratti scontato e a tratti stimolante, che come il suo protagonista deve fare a botte con una parte di sé che lo vorrebbe anarchico, tenebroso e sanguinolento e l’esatto opposto che gli ricorda di doversi dare un contegno per rientrare nei canoni della censura ed evitare divieti.
Così quell’horror che avevamo iniziato a pregustare felici, sorpresi di un’audacia ormai assente nell’industria cinematografica mainstream di oggi, finisce via via col dissolversi e stabilizzarsi: costretto a collaborare con pezzi di commedia, romanticismo e il canovaccio standard dei super-hero-movie e a concepire una trama dagli eventi piuttosto canonici che, forse, riesce a risparmiarci qualche cliché di troppo, ma non la parabola discendente di quell’entusiasmo assaporato sulle prime. Certo, avere un front-man come Hardy - capace di risollevare la scena con una sola inquadratura o battuta, fornendo al personaggio largo spessore pur avendo periodi strettissimi per lavorare sul suo intimo - ti concede il lusso di non cadere mai sulle ginocchia e tenere duro a ogni botta, ma da uno stand-alone su Venom, probabilmente, era lecito aspettarsi qualcosina in più di una semplice prova di resistenza fisica (tra l'altro, anche in termini di sequenze spettacolari, siamo un tantino sotto la media).
Che poi ordinaria, mica tanto.
Perché il “Venom” di Ruben Fleischer impatta sullo schermo assumendo un’aria da horror puro, un’aria che pensi da un secondo all’altro venga smorzata ironicamente, ritirata, ma che invece per un po’ viene adottata a tempo pieno, come fosse quello il suo genere di riferimento. Una scelta interessante, che farebbe il paio con le dichiarazioni di Tom Hardy quando, in fase di inizio riprese, disse di aver accettato il ruolo di Eddie Brock proprio per via dell’originalità di un progetto di fondo, fuori dalle righe. Ma una scelta, anche, che un prodotto d’intrattenimento, derivato da un cine-comic, non può permettersi di cavalcare troppo a lungo, neppure se alternata da momenti più leggeri e divertenti in cui Hardy – contagiato dal parassita alieno, più comunemente detto simbionte – dialoga e combatte internamente per non perdere il controllo del suo corpo e della sua mente, attirati dal lato oscuro. Ciò che ne viene fuori allora da questo “Venom” è, inevitabilmente, un ibrido a tratti scontato e a tratti stimolante, che come il suo protagonista deve fare a botte con una parte di sé che lo vorrebbe anarchico, tenebroso e sanguinolento e l’esatto opposto che gli ricorda di doversi dare un contegno per rientrare nei canoni della censura ed evitare divieti.
Così quell’horror che avevamo iniziato a pregustare felici, sorpresi di un’audacia ormai assente nell’industria cinematografica mainstream di oggi, finisce via via col dissolversi e stabilizzarsi: costretto a collaborare con pezzi di commedia, romanticismo e il canovaccio standard dei super-hero-movie e a concepire una trama dagli eventi piuttosto canonici che, forse, riesce a risparmiarci qualche cliché di troppo, ma non la parabola discendente di quell’entusiasmo assaporato sulle prime. Certo, avere un front-man come Hardy - capace di risollevare la scena con una sola inquadratura o battuta, fornendo al personaggio largo spessore pur avendo periodi strettissimi per lavorare sul suo intimo - ti concede il lusso di non cadere mai sulle ginocchia e tenere duro a ogni botta, ma da uno stand-alone su Venom, probabilmente, era lecito aspettarsi qualcosina in più di una semplice prova di resistenza fisica (tra l'altro, anche in termini di sequenze spettacolari, siamo un tantino sotto la media).
Poteva essere per la Sony il crack che l’esordio di “Deadpool” è stato per la 20th Fox, quello di Fleischer. Bastava andare meno per il sottile e farsi avvolgere totalmente, senza preoccupazioni, da quell’atmosfera dark capace di giocare lo stesso ruolo che il simbionte del film fa con Hardy. Quella di fargli opposizione, sperando di colpire sia il cerchio, sia la botte, è stata, indubbiamente, una tattica votata al pareggio. Un pareggio raggiunto, si, ma a scapito della vittoria.
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