Ride - La Recensione

Ride Valerio Mastandrea
Ha preferito rimanere dietro, stavolta, Valerio Mastandrea; esordire alla regia e cimentarsi, quindi, in qualcosa di (quasi) completamente nuovo, per lui, senza avvalersi di un contro-bilanciamento che potesse farlo sentire, portandolo anche davanti, a tratti più a suo agio e comodo, seppur con responsabilità superiori a cui far fronte. Lo ha fatto, probabilmente, per non disperdere troppo la concentrazione; perché – a conti fatti – un ruolo vero e proprio da calzare, nella sceneggiatura che ha scritto insieme a Enrico Audenino, non c’era, ma soprattutto l'ha fatto perché all'interno di “Ride” era già presente la sua anima, il suo modo di essere e quello di vivere (e vedere) la realtà.

Non lo vedi allora Mastandrea, però lo senti.
Lo senti quando Bruno, il figlio piccolo di Carolina, parla alla madre di come ha intenzione di vestirsi al funerale di suo padre; quando lei gli risponde stizzita che non ha ancora pensato a cosa mettersi, ma lo farà oggi, e in quel dolore imploso che tutti e due si porteranno addosso fino all’ultimo, crollando, poi, inevitabilmente, in una scena (bellissima) simbolica e liberatoria. Lo senti per la sensibilità e il rispetto con il quale decide di trattare un argomento delicato e amaro come quello delle morti sul lavoro, dando sfogo a una malinconia che conosce benissimo e asciugando troppo - forse per paura di eccellere - quella sua ironia sottile e spiazzante che, se dosata e posizionata nei punti giusti, avrebbe addirittura potuto rendere la sua pellicola maggiormente a fuoco e vibrante. Perché di carne al fuoco, non sembra, ma “Ride”, ne mette su parecchia, volendo raccontare le conseguenze di una tragedia da diversi punti di vista – quello di una moglie (e madre), di un figlio e di un padre – che non per forza prevede di incrociare e di risolvere facendoli convergere in un unico flusso: placando i tormenti dei suoi protagonisti (riverberati dalla città di Nettuno-tutta) solo in maniera parziale e intima.

Ride MastandreaQuella di immaginare una soluzione consolatoria, dove la morte di un marito e di un padre di trentacinque anni potesse essere, rapidamente, elaborata, piuttosto che metabolizzata da una comunità di operai stanchi di non riuscire a far sentire la propria voce e a far valere i propri diritti, non è mai stata un’opzione, del resto, per Mastandrea: che usa lo strumento a sua disposizione, infatti, più come un’arma, come fosse una cassa di risonanza nella quale urlare dissenso verso una condizione a cui, purtroppo, ultimamente si tende a dare un peso sempre inferiore. Si dovrebbe morire in guerra non di fabbrica, dice, giustamente, uno degli anziani presenti al funerale; uno di quelli tra i più tormentati, abbattuti: che chiede a Renato Carpentieri se con loro ancora dentro le cose sarebbero andate diversamente, se potevano fare di più per i loro figli, non riuscendo a evitare di sentirsi tra i primi responsabili (e carnefici) di ciò che è accaduto.

L’elaborazione del lutto posizionata al centro, perciò, diventa un’opportunità per guardarsi dentro, per sbloccare attriti famigliari, silenzi, lacrime, ma anche riflessioni verso un’umanità e verso delle abitudini sbagliate che varrebbe la pena cominciare a rileggere e rimettere in discussione.
Per tornare, magari, un giorno a ridere spensieratamente, leggeri, così come da tempo non riusciamo più a fare.

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