Aquaman - La Recensione

Aquaman Jason Momoa
L’universo DC Comics, progettato dalla Warner Bros. per contrastare la concorrenza Disney/Marvel, è collassato. Il Superman di Henry Cavill è da rimpiazzare, o riavviare, dello stand-alone di Flash si sa sempre meno e pure Batman non è che si senta tanto bene.
A salvarsi – ma per il rotto della cuffia - è stata solo la Wonder Woman di Gal Gadot. Lei e l’Aquaman del vichingo Jason Momoa, che il film tutto suo ha cominciato a girarlo prima (terminandolo durante) che questo terremoto esplodesse, provocando grossi danni.

Un destino in bilico, dunque, il suo, affidato nelle mani di un regista votato all’horror, come James Wan, reduce da un’esperienza dimenticabile coi blockbuster – il suo esordio fu “Fast And Furious 7” - e per la prima volta alle prese col fantasy e coi fumetti. Però, forse, è anche la prima volta che alla Warner si affidano a un regista degno di portare tale nome: bravo ad adempiere a ordini e obiettivi della produzione, ma bravo ancora di più nel trovare modi sempre nuovi per divertirsi e sperimentare. Basta la prima scena di combattimento, allora, per capire che la piattezza di chi è venuto prima, in “Aquaman”, è rimasta chiusa fuori, con soluzioni visive – digitali, è ovvio – incredibili e quell’aria da videogioco a livelli – con inquadrature in prima persona, comprese – adattate perfettamente alla narrazione cinematografica. Dirige in maniera scanzonata, Wan, e consiglia a Momoa di fidarsi di lui, recitando in scena allo stesso modo: consiglio che l’attore non si lascia ripetere due volte, aderendo e marcando il suo personaggio come mai gli era riuscito in passato. Così quella che poteva essere temuta come la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso, si trasforma all’improvviso nel super-attack che potrebbe salvarne i cocci: non tutti, non molti, ma almeno una buona parte. Perché non appena può farlo questo “Aquaman” cerca di scrollarsi di dosso la rigidità, gli obblighi, prendendosi meno sul serio di quanto amavano fare i suoi compagni di squadra, ora in crisi, e risultando pure simpatico.

Aquaman MomoaLa leggerezza, quindi.
Quella che a Wan piace tenere costantemente in tasca e tirare fuori, ogni qual volta le impalcature scomode e la tematica ambientale (i mari inquinati da chi vive sulla terra) della sua pellicola devono far capolino: perché questi sono gli ordini e, vuoi o non vuoi, un pochino vanno rispettati. Così come va rispettata quella prassi del caos, dei folti combattimenti - qui sotto i mari - tra mostri e schieramenti, alla ricerca del potere e della gloria. Tutti intralci, tutte parentesi noiosissime (tranne quella in Sicilia, pregevolissima) che mettono i bastoni in mezzo alle ruote di una regia che si esalta quando può tornare a sfogare la sua visionarietà e libertà creativa: che trova l’apice nella splendida scena del Regno dei Trench, dove la percezione – tra pesci orrendi, oscurità e luci rosse - è quella di ritrovarsi all’interno di un girone Dantesco infernale.

Opportunità che Wan sfrutta anche per tornare a giocare con quella paura, con quei jump scare piazzati qui e là (ci apre il film!), che fanno parte di lui e che nelle profondità degli abissi è coerentissimo bussino alla porta, spaventando.

Qualcuno, poi, si potrà divertire a trovare dei riferimenti, a cogliere citazioni esplicite, come quella a “La Spada Nella Roccia”, miscelate a quelle implicite e provocatorie su “Captain America” o su “Thor”: di cui questo “Aquaman”, molto spesso, da’ l’idea di voler esserne una versione rielaborata tra i mari.
Ma con l’aria che tira(va), poco male, alla fine.

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