Benvenuti A Marwen - La Recensione

Benvenuti A Marwen Zemeckis
C’è la motion capture e c’è il live-action.
In pratica tutto il cinema di Robert Zemeckis (che si autocita, non a caso). Quello che fino ad ora aveva viaggiato disciplinato, su rette parallele, ma che in “Benvenuti A Marwen” trova terreno fertile per azzardare un incrocio, abbozzando una strana convivenza.

L’intuizione per l’esperimento arriva dalla storia vera del fotografo, disegnatore e artista Mark Hogancamp, il quale a seguito di un pestaggio omofobo, perde memoria e capacità di disegnare (nella realtà, anche la parola), reinventandosi fotografo di bambole all'interno dell’installazione artistica presente nel suo giardino: dove con la fantasia inventa avventure che lo vedono affrontare e uccidere all'infinito la furia dei nazisti, durante la Seconda Guerra Mondiale. Un rifugio mentale escogitato per (non) reagire al fortissimo shock subito; per sfogare la rabbia verso quei malviventi che – svastica tatuata sul braccio – una sera, al pub, hanno deciso di picchiarlo a sangue perché incapaci di accettare l’idea di un uomo appassionato (e collezionista) di tacchi a spillo e affascinato da quell’essenza femminile, saltuariamente citata. Richiami ad un’omosessualità più insinuata che effettiva. Di fatto assente, se diamo retta alle foto in cui Mark appare sposato con la donna che, ormai, lo ha abbandonato: sebbene Zemeckis cerchi di alimentare i dubbi a riguardo, mostrandoci il suo alter-ego-pupazzo allontanare – e in un caso addirittura provocandone la morte – qualsiasi donna osi avvicinarsi a lui in termini sentimental-sessuali.
Ma si tratta sempre e solo di paura, di non mettere in pericolo – provocando dolore, come è accaduto alla sua Wendy – qualcuno a cui si vuole bene, premuroso, innocente: e la risposta definitiva all’interrogativo arriva con l’entrata in scena della vicina Nicol, della quale Mark s’innamora perdutamente, in entrambi i (suoi) mondi. Perché il sentirsi consapevolmente un diverso, in qualche modo, nella sua mente ancora fragile, lo condanna a rimanere vittima degli intolleranti e calamita di avversità praticamente per sempre: come testimoniano le resurrezioni dei bambocci nazisti, che ogni volta uccide nei suoi viaggi mentali, ma che poi – come dice lui - torneranno.

Benvenuti A Marwen Steve CarellPerciò si divide Zemeckis, alternandosi in maniera più o meno bilanciata tra digitale e attori in carne e ossa e manifestando una leggera pendenza e affezione verso la prima categoria. Un feticismo, il suo, che somiglia tantissimo a quello di Mark per le scarpe col tacco e che – volendo trovare un punto di contatto tra i due – lo porta a perdere perizia e orientamento di una narrazione che, in questo modo, non può scendere in profondità come vorrebbe, costretta a tornare, ogni volta, il quel parco giochi accattivante, ma – alla lunga - ridondante. C’era un film straordinario, allora, dentro “Benvenuti A Marwen”, un film dove il profilo, le contraddizioni e le crisi di Mark potevano emergere ben oltre la superficie, appassionarci, diventare universali. Ma si tratta di un film che, purtroppo, è destinato a rimanere nella nostra testa, idealizzato (assaporando il trailer), filtrato dall’amore verso una tecnologia strabiliante, ormai evolutissima, utilizzata però con eccessivo trasporto e, forse, minor logica.

Certo, la curiosità intorno a un personaggio come Mark, al suo vissuto, all'amore per la donna (l'unica in grado di salvare il mondo) e agli sviluppi che lo hanno portato a reagire, recuperando sé stesso, ovviamente, non sfumano. Tant'è che la voglia di recuperare "Marwencol" - il documentario di Jeff Malmberg, da cui Zemeckis ha preso spunto per il suo lavoro - con la speranza di ricavarne più informazioni, alla fine, è più che un'ipotesi. Una sorta di rimbalzo - o contraccolpo - che tuttavia, per una pellicola così carica di inventive e di potenzialità, suona un po' come uno smacco.

Trailer:

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