Glass - La Recensione

Glass Shyamalan
Alla fine di “Split” una sequenza – a metà tra colpo di scena e post-credit – svelava che ci trovavamo nello stesso universo di “Unbreakable: Il Predestinato”. Era una goliardata, una trovata escogitata dal regista M. Night Shyamalan per citare sé stesso, per strizzare l’occhio al suo cinema e, magari, solleticare i suoi fan più accaniti.
Difficile credere, infatti, che dietro l’apparizione di Bruce Willis, all’epoca, esistesse già l’ombra di questo “Glass”: la pellicola con la quale concretamente i protagonisti di quelle due storie entrano in contatto tra loro, dando vita a una trilogia e a un progetto praticamente nato all'improvviso.

E che sia improvviso - quindi costruito su basi non solide, ma concepite in corso d’opera, per cavalcare l’onda generata da uno scherzo - “Glass” lo fa intendere quasi subito: trascinato da una trama decisamente meno robusta e incalzante di quelle a cui il cinema del suo regista ci ha abituati, e con lo scopo unico di voler allestire una reunion con la quale divertirsi, alla stregua di come un bambino farebbe con dei giocattoli appena scartati. Solo che quel bambino è un adulto e per quanto possa prostrarsi alle regole di un mercato che lo vede sempre più incline a confezionare prodotti mainstream, Shyamalan conserverà sempre e gelosamente quell’attitudine a dover creare tensione a prescindere, a lavorare in sottrazione, a raccontare qualcosa che tanto – e per chi lo conosce non è una sorpresa – sarà destinato a subire ribaltamenti e strappi, in un terzo atto che, come per gli illusionisti, mostrerà come qualche indizio che abbiamo avuto sempre sotto il naso, portasse più peso di quello da noi istituito a caldo.
Del resto è proprio a causa di questi vizi - o marchi di fabbrica – che questo suo ultimo film, pur non spiccando il volo, riesce a rimanere stabile sulle sue gambe, perdendo raramente il senso dell’equilibrio, bravissimo a procedere di mestiere.

Glass FilmPerché a livello di struttura narrativa, “Glass”, è studiato per temporeggiare, per accumulare interamente l’aria sinistra che si respira nella specie di manicomio in cui si svolge, e poi andare a esplodere, dichiaratamente, in un finale assai meno spettacolare di quello che ci si attenderebbe da un cine-comic (perché volente o nolente di questo si tratta), ma caratterizzato da un'indole rivelatoria, nonché – come dice il suo vero protagonista, Samuel L. Jackson – dalla nascita di determinate e inaspettate origini. Uno di quelli alla Shyamalan, verrebbe da dire, se non fosse per delle forzature evidenti che paiono messe lì apposta, per far quadrare i conti, e perciò incapaci di provocare scosse, o di spiazzare lo spettatore in maniera significativa. Una chiusura del cerchio – e probabile apertura di qualcos’altro, volendo – scandita attraverso alcuni schemi tipici del fumetto (edizioni limitate, showdown, ecc, ecc) che lentamente si fanno largo e vengono chiarificati, diventando - involontariamente, forse - l’elemento più elettrizzante in assoluto a cui, per consolazione, conviene aggrapparsi.

Intrattenimento leggero, ben confezionato, gradevole, insomma. Eppure parecchio fragile e diverso da quello che, potenzialmente, si poteva modellare.
Meglio, allora, quando l’unione tra i mondi di “Split” e di “Unbreakable: Il Predestinato” era solo una suggestione, quando la visione di un film in grado di accorparli veramente era ancora una solleticante idea: visto e considerato che, adesso, a operazione conclusa, non è che questa riunione di famiglia con tempesta – tanto per fare una semi-citazione non casuale – abbia portato a risultati scoppiettanti o sperati.

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