Si, per carità, mi rendo conto io per primo che leggere un’affermazione così, sembra quasi una follia; che certi spiegoni te li devi sorbire per forza quando c’è lo stand-alone sulle origini di un personaggio - per giunta mai apparso fino ad ora nei capitoli precedenti; che i combattimenti-caciaroni sono un marchio di fabbrica, ormai, e che, a metterci il carico da undici, stavolta, c’era pure la contestualizzazione anni ’90 che, in pratica, anticipa temporalmente e di netto l’intero marvelverse visto fino ad ora.
Però vuoi mettere?
Quanto migliora la pellicola diretta da Anna Boden e Ryan Fleck non appena si scrolla di dosso i suoi doveri? Non appena – come accadde nel primo “Thor” – la sua supereroina si stabilisce sulla terra e comincia a legare, in maniera ironica e investigativa, con Nick Fury? Dalla noia mortale delle esplosioni, gli alieni e le astronavi - che pretendono gli venga dato un ritmo forsennato, caotico e asfissiante - si passa a una condizione più rilassata, serena – per quanto possa esserlo in un film del genere, sia chiaro – con i rapporti umani che conquistano il dominio e scaldano l’atmosfera: raccontando decisamente meglio e con fare più incisivo le particolarità di ogni protagonista. Nella parte centrale, allora, “Captain Marvel” diventa un cine-comic piacevole, coinvolgente, si distacca da quelle istruzioni che stava seguendo - e che stavano rischiando di farlo passare come un prodotto omologato e freddo - e da’ inizio a una sgambata che gli permette di sgranchire i muscoli, di scaldarsi e inanellare qualche apprezzabile numero. Su tutti quello più sfruttato e prevedibile – ma responsabile di una spinta propulsiva non poco indifferente – relativo all'intera operazione nostalgia vincolata all'epoca: aperta da quel blockbuster su cui Brie Larson viene fatta schiantare e portata avanti con grande furbizia e coerenza da abbigliamento, musica, oggettistica e – nella scena più esilarante, forse – da un computer che, diciamo, non restituisce esattamente le celeri prestazioni a cui siamo abituati oggi.

Ma esiste un aspetto, tuttavia, in cui “Captain Marvel” riesce a mettersi in risalto, a compiere una sorta di miracolo, a farsi capostipite: e stiamo parlando della tecnica digitale con la quale Samuel L. Jackson è stato ringiovanito e lasciato sulla scena per una porzione di film decisamente lunga (quasi tutto), riducendo al minimo, se non addirittura annullando, la sensazione di artificio e di videogioco che, magari, si era potuta percepire quando il medesimo tentativo era stato applicato in passato.
Piccoli traguardi che possono - senza esagerare, mi raccomando - tornare utili in futuro e altrove, e che la Marvel col suo universo ha oggettivamente contribuito a sdoganare e a perfezionare. Intervento, a questo punto, che non sarebbe male riuscire ad apportare anche al concetto complessivo d’intrattenimento vigente: ammesso che quello della perfezione sia per loro obiettivo costante, posto su ogni settore.
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